«Grazie a lui l'impetuosa brama si spense e colui che sempre inganna e seduce i nostri liberi cuori, finalmente vinto, fuggì. Senza dubbio, egli sconfisse gli errori e i peccati, allontanò dal suo animo l'ignobile sacrilegio e, assecondando la volontà di Dio con innumerevoli virtù, sostenne l'onore e le celebri insegne dell'Ordine, riportando nella fede e nella religiosità la schiera vacillante di Cristo e allontanando i demoni malvagi con la spada... Lode al tuo animo, o Francesco: tu, per primo, hai assalito il potente nemico e, vincitore, hai patito le sofferenze di Cristo...». Giovanni Pontano è unanimamente considerato tra i più grandi, se non il più grande, poeti latini del Rinascimento, non solo italiano ma europeo. E tuttavia c'è un'opera del Pontano che non ha ricevuto l'approvazione che avrebbe meritata, il "De laudibus divinis". Solo il grande Zabughin rilevò che, senza quest'opera, «non avremmo, assai probabilmente, né le "Partenice" del Mantovano, né il "De partu Virginis" del Sannazaro». A parere dello studioso russo, «l'inno quinto della raccolta è non solamente il germe del magnifico poema del Sannazaro, ma una delle gemme più fulgide del Rinascimento cristiano», così come l'inno a san Francesco d'Assisi - Pontano era nativo dell'Umbria, è bene ricordare - «può sostenere degnamente il paragone con i più bei ritratti del Poverello, quanti ne pennelleggiò il Rinascimento». Il giudizio estetico di Zabughin può anche non essere pienamente condiviso, ma è indubbio che il "De laudibus divinis" occupa un posto d'onore nella letteratura sacra del nostro Rinascimento, e che i poeti e i letterati del tempo l'abbiano avuto per le mani; forse ha avuto persino l'onore di ispirare alcuni versi ad Alessandro Manzoni, se è vero, come fece notare per primo il Carducci, che alcuni versi degl'Inni sacri trovano delle strane rassomiglianze nel latino del Pontano. Condotta sull'unico esemplare autografo approvato in vita dal Pontano, e accompagnata da un'essenziale commento.
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