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«Nelle lettere alfabetiche la lingua è inventata per la seconda volta. Ed esse mostrano il carattere sintattico della lingua. Una singola lettera, di una determinata grandezza in un determinato posto su di una superficie di grandezza determinata può essere un testo. La superficie è quindi importante quanto il segno che su di essa compare» (Franz Mon, “Buchstabenkonstellationen”, 1967). Questa autorevole citazione dovrebbe chiarire quanto sia rilevante per un libro il suo aspetto grafico, che è la prima caratteristica che attrae il potenziale lettore. J.H. applica una simile consapevolezza per ideare le copertine di alcuni grandi classici, dei quali “Il signore delle mosche” è un esempio. Se ora osserviamo il suo operato salendo su una scena più vasta, noteremo alcune significative e provvidenziali analogie. Nell’800, con i lungi tempi che si avevano a disposizione, avveniva tutto più segretamente; ma se J.H. fosse vissuta duecento anni fa, nella Germania dei primi anni del XIX, sarebbe forse stata una Adele Schopenhauer intenta a disegnare sulla carta di cotone, con la matita ed i colori; e con la forbice elegante delle case biedermeier a ritagliare bei capilettera illustrati (‘Scherenschnitte’), con quelle misteriose affinità che li legano ad una parola di cui sono iniziale. Come i suoi Drop Caps, che ci rimandano ai grandi autori della letteratura mondiale: D di Dickens, F di Flaubert, G di Golding in un loro naturale «regressus» dal digitale alle belle lettere impresse sulla carta (‘letterpressed’). Quasi che ogni ‘carattere’ (o Tu, felix littera!) tolto al suo solipsismo da lettere spirituali di una mistica Ur-Torah, da “Sefer Jezira”, da alfabeto ebraico vorticante sul fondo neutro dell’universo, in una galassia preoriginaria, fosse alla ricerca dell’autore o del nome fidente che lo sappia rappresentare meglio. Gli sappia dare apparendo stampato in una sua definitoria nitidezza, nel loro occasionale incontro, il miglior significato e il volto più splendente.
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