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Come recita l’Avvertenza con cui s’apre, Luce in una notte romana è da considerarsi opera di fantasia, “tuttavia, guerra e dopoguerra, serrate e occupazioni delle fabbriche, non sono invenzioni, magari lo fossero state”. Lo può ben dire l’esordiente Pierozzi il quale è nato proprio durante il secondo conflitto mondiale nella Roma proletaria che descrive così vividamente ed è stato a lungo operaio e poi sindacalista; firmando, dopo la pensione, un romanzo in cui storia, dramma e commedia umana si dispiegano in una scrittura brillante e saporosa d’altri tempi. Il racconto è ambientato prevalentemente in un grande caseggiato popolare del quartiere romano di Testaccio abitato da famiglie in maggioranza nient’affatto benestanti. Pur coprendo un arco cronologico piuttosto ampio, la narrazione si svolge in particolare tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, anni di miseria e di speranze in cui il boom economico era ancora lontano. Lo sfondo storico è però molto ben delineato anche quando si ritorna indietro nel tempo ai primi decenni del Novecento con il personaggio di Vergilio, reduce e mutilato della prima guerra mondiale. A tenere insieme l’intreccio sono proprio le parabole esistenziali dei protagonisti, cui sono intitolate le sezioni in cui Luce in una notte romana è diviso, tutti personaggi di carne e di sangue che rimangono memorabili dopo la lettura. (...)
La coralità è inscritta nell’ambientazione stessa del libro, nella promiscuità di cortili e terrazze dove si incontrano e scontrano i personaggi femminili, nella fabbrica O.M.A., la storia della cui “serrata” – imposta dal padrone nel settembre 1949 – scorre tra i capitoli e culmina nell’ultimo con i cinque mesi di occupazione dei lavoratori, l’entusiasmo iniziale, i risparmi erosi una settimana dopo l’altra. Pur non perdendo la sua vena sensuale, il romanzo si fa più schiettamente politico in un nuovo turbinio di caratteri e facendo emergere pagine neglette della storia dell’Italia operaia con il molto spazio lasciato da Pierozzi alla cospicua manodopera femminile rimasta in fabbrica dai tempi della guerra, rappresentata dal personaggio di Lucia, di nascita borghese e ingegnere, a testimonianza di una composizione variegata della classe operaia non certo prevalente nel nostro immaginario, ma che sul palcoscenico dell’O.M.A. si muove con sfrontatezza romanesca e libertà di costumi inedite nei modelli, quali Pratolini, a cui l’autore parrebbe rifarsi. Se Pierozzi ci avesse preso gusto, come già il corregionale Pennacchi, questo potrebbe essere solo il primo capitolo di un’epica popolare ancora da scrivere.
Claudio Panella
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