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La macchina dell'errore. Storia di una lettura - Mario Lavagetto - copertina
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Descrizione


Un testo di Balzac diventa il caso esemplare del rapporto tutt'altro che lineare fra l'autore e il suo testo, tra il progetto e il risultato finale. Un rapporto che coinvolge il lettore, chiamato ad affrontare gli enigmi, gli "errori" e i lapsus della macchina letteraria.
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Dettagli

1996
1 gennaio 1997
185 p.
9788806142605

Voce della critica


recensione di Bertini, M., L'Indice 1997, n. 5

Nell'ultima pagina di questo saggio-racconto l'opera di Balzac è assimilata a una città "inesauribile e notturna", dove il lettore può inoltrarsi in cerca di avventure. È un'immagine (Proust avrebbe detto una metafora) che coglie nel segno: grazie al ritorno dei personaggi da un romanzo all'altro, all'intrecciarsi e al parziale sovrapporsi delle loro vicende, il lettore assiduo dei romanzi di Balzac non segue mai, fino al suo appagante scioglimento, il filo luminoso di un singolo destino, ma procede sempre a tentoni in una pluralità spaesante, simile a quella di una metropoli sconosciuta. Deve sforzarsi di conquistare ogni precaria certezza con pazienti ritorni sui propri passi, e solo di rado è soccorso dalla folgorazione di un riconoscimento imprevisto. Curiosamente, per una sorta di magnetismo, i lettori più sensibili a questa essenza labirintica del cosmo balzachiano sono spesso attratti dalle stesse zone della "Commedia umana": Roland Barthes nel 1970 e Michel Serres nel 1987 (vedi "L'Indice", 1989, n. 4) si sono cimentati entrambi con "Sarrasine"; Francesco Orlando, in una densissima nota della seconda edizione de "Gli oggetti desueti" (Einaudi, 1996), e Mario Lavagetto in questa lettura magistrale, sono stati invece risucchiati dal perturbante scenario de "La grande Bretèche", il giardino inselvatichito della casa abbandonata che porta questo nome e che nasconde le tracce di un adulterio e di un assassinio.
È proprio lo spettacolo di sfacelo che offre quella dimora feudale a porre in moto il racconto balzachiano: il narratore-protagonista vuol penetrarne a ogni costo il mistero, e vi riuscirà, grazie ad altri tre narratori successivi (un notaio, un'ostessa, una cameriera), ognuno dei quali gli fornirà un frammento della tragica vicenda che egli è chiamato a ricostruire come un mosaico o un puzzle. Benché la vicenda sia di ambiente aristocratico - coinvolge una coppia di antica nobiltà provinciale e un grande di Spagna, l'amante della moglie, che finirà murato vivo sotto gli occhi dell'amata -, quelli che la raccontano al protagonista, che è il medico Bianchon, di aristocratico non hanno proprio nulla: si tratta di un notaio di provincia e di due donne del popolo. Il racconto finisce dunque (è questo il nucleo della lettura di Orlando) per essere la messa in scena, in un'ottica tutta borghese, dell'"esemplarità sontuosa dello spreco aristocratico", di cui la dimora in rovina diviene il suggestivo emblema.
L'interpretazione di Orlando prescinde dal divenire del testo, dalle sue varianti, per coglierne uno dei contenuti nascosti. Il saggio di Lavagetto, invece, sviluppa un avvincente e rigorosissimo discorso narrativo partendo da una serie di interrogativi sulla genesi del testo. Se la Grande Bretèche ha tutte le apparenze della casa infestata, il testo che ne narra la storia si aggira, proprio come uno spettro, per l'opera di Balzac; viene spostato da un volume all'altro, attribuito a narratori diversi, modificato in piccoli dettagli cruciali che l'occhio del critico individua come rivelatori. È un testo fantasma che rimanda a un ben preciso scheletro nell'armadio: quegli amori adulterini della madre di Balzac, di cui il romanziere fu da bambino lo scomodo testimone, e da adulto il narratore crudele e assetato di immaginarie vendette.
Costruito come un racconto poliziesco, "La macchina dell'errore" ha tra i suoi numi tutelari Calvino e Perec; infatti, con una tecnica che li evoca entrambi, attribuisce la "lettura", di cui il saggio è la storia, a un personaggio fittizio e umbratile, L1, che in un momento imprecisato anteriore al 1979 esplora i misteri e le contraddizioni de "La grande Bretèche", trascinando il lettore affascinato in una serie di emozionanti peripezie esegetiche. Il gioco non è però fine a se stesso e si inserisce, molto brillantemente, nella più recente critica balzachiana, attenta - penso a Nicole Mozet, a Roland Chollet - al Balzac meno prevedibile delle opere "minori" e agli effetti di discontinuità e di frattura evidenziati da Lucien Dällenbach nella "Commedia umana". Dietro L1 si profila così un agguerrito teorico della letteratura, che del seducente enigma poliziesco si avvale per ricordarci che le smagliature e i lapsus di un testo ne fanno parte, insopprimibilmente; e che, secondo un suggerimento di Barthes, anche l'autore stesso e il suo contesto biografico altro non sono che testi in attesa di decifrazione.

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Conosci l'autore

Mario Lavagetto

(Parma 1939) critico italiano. Allievo di G. Debenedetti, si è particolarmente interessato all’impiego di metodologie psicoanalitiche nella critica letteraria. Tra i suoi studi: La gallina di Saba (1974), L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo (1975 e ’86), Freud, la letteratura e altro (1985), Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust (1991), La cicatrice di Montaigne: sulla bugia in letteratura (1992), La macchina dell’errore (1996), Dovuto a Calvino (2001), Lavorare con piccoli indizi (2003), Eutanasia della critica (2005), Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust (2011), premio Viareggio. Ha proposto inoltre una sagace analisi di libretti verdiani nei saggi Quei più modesti romanzi (1979), Un caso di censura: «Il Rigoletto» (1979), sulla metamorfosi di un libretto esemplare, e...

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