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Nelle tre sezioni che lo compongono, il testo sviluppa una biografia sommersa sopra la quale si stende l'intrico del mondo, il "paradiso non finito del mondo", messo in scena per celare pudicamente un intimo dialogo con l'ombra materna, con il suo corpo, ormai "estraneo" e "minerale". Rispetto ai suoi precedenti libri, qui Calandrone scioglie il connaturato surrealismo in un canto tragico, che tocca con maggiore immediatezza il lettore, gettandolo nell'esperienza della perdita, venata tuttavia da una luce albale, che si adagia su chi resta, "estrema razza azzurra", mentre sulla crosta terrestre brulica una materia scura e senza speranza. Questa luce permea anzitutto la lividissima mater archetipica, il mare-grembo striato dal "cherosene", nel cui umore galleggiano i detriti dell'Occidente sconfitto (emblematicamente incarnato, nella seconda e terza parte del libro, da eventi luttuosi tratti dalle due guerre mondiali), ma riposa anche "la viscerale / pace della persona". Recuperando infatti la lezione del Sanguineti "laborintico", la poetessa romana costruisce, con questo intensissimo libro, un "colatoio alchemico", una macchina responsabilmente agita dalla lingua, in cui si filtra "l'oro del mondo", che è eredità d'affetti e capacità di toccare con le parole, di benedire l'esistente alla maniera di Rilke, nella pienezza della presenza inconsapevole. Ecco allora che la verità dell'essere, soprattutto nella prima sezione, si legge per esempio nella "ruggine quieta delle cisterne", mentre colpevole appare la specie integrata, l'essere umano a una dimensione dell'odierna civilizzazione. Procedendo nella lettura, il contrasto si attenua, sino a stemprarsi in pietas verso le secrete cure dei mortali, mutando così il canto in preghiera e il destino dell'io narrante in quello di tutti i sopravvissuti. Stefano Guglielmin
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