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Capolavoro italiano sull'ipocondria, scritto con tale umorismo e leggerezza da rendere simpatico il terrificante brontolone protagonista, con schizzi di satira sociale su ciò che ruota intorno alla dolce vita romana, agli ambienti del cinema e alla medio-alta borghesia del boom economico. In alcune lungaggini dei capitoli soprattutto centrali il romanzo può risultare un po' noioso, ma dolore e ironia si mescolano più spesso che no a ravvivare il flusso del racconto.
Splendido ritratto di un nevrotico depresso che riesce a tenere a bada il suo male con la psicoanalisi che gli suggerisce uno stile di vita diverso non a contatto con l'umanita' malvagia ma a contatto con la natura benefica.Puo' sembrare una fuga dalla realta' ma anche una scelta di vita sana che e' quella x cui l'uomo e' nato.
Questo romanzo del trevigiano Giuseppe Berto (1914-1978), che a una settimana dalla sua pubblicazione nel 1964 vinse sia il Campiello sia il Viareggio, fu forse il primo ad affrontare nel dopoguerra il fenomeno della nevrosi depressiva. E lo fece con tanta intelligenza ed arguzia che da allora il suo titolo divenne leggendariamente sinonimo di quel malessere dell'anima e del corpo sempre più diffuso nella civiltà contemporanea, che oggi viene trattato per lo più con dosi massicce di psicofarmaci. Berto, che ne fu afflitto per anni, ne guarì, dopo averne trattato letterariamente? Chissà. Certo riuscì con questo libro a indagare a fondo la psiche malinconica, contorta, ferita, maniacale e autoreferenziale di un depresso, descrivendone con lucida analiticità le fobie e le manie, i sensi di colpa e le ansie: insomma, l'incapacità di vivere con gli altri, di scegliere responsabilmente la felicità, il desiderio inconscio di punire se stesso e chi gli sta vicino. E lo fece raccontandosi in prima persona, a partire dall'infanzia oppressa da un padre ex-carabiniere, da un ambiente familiare meschino, da un collegio religioso castrante. E poi gli studi ansiogeni, le storie sentimentali inconcludenti o fallite, le molte malattie immaginarie e concrete, le umiliazioni professionali ed economiche, le ambizioni spropositate, le invidie asfissianti. Fino alla decisione improcrastinabile di sottoporsi a un'analisi freudiana, cercando di salvare il salvabile di un'esistenza avvertita come sprecata. Ma la grandezza del romanzo risiede tutta in due originalissimi aspetti: l'autoironia a tratti beffarda e compiaciuta, più spesso intenerita e complice, con cui il narratore si flagella, riuscendo sempre a far sorridere (o decisamente a ridere!) il lettore. In secondo luogo lo stile, allora nuovissimo, oggi abbastanza imitato (si pensi, tra gli altri, al bravo Paolo Nori): ansimante, precipitoso, privo di punteggiatura, che insegue senza sosta il flusso accavallato dei pensieri.
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