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PETRUCCIANI, STEFANO, Marx al tramonto del secolo. Teoria critica tra passato e futuro
GENOVESE, RINO, La tribù occidentale. Per una nuova teoria critica
recensione di Pianciola, C., L'Indice 1996, n. 8
Raccogliendo saggi già in parte editi su riviste e in volumi collettanei, Petrucciani traccia un percorso che parte da un bilancio dell'eredità di Marx, si sofferma nella parte centrale su Horkheimer e Adorno, per approdare all'analisi dell'etica del discorso di Habermas e di Apel, e concludersi con una serrata discussione su democrazia, comunitarismo, liberalismo, universalismo. Tra le riletture recenti di Marx (Balibar, Derrida, Sylos Labini) il libro si caratterizza per la tesi interpretativa secondo cui il pensiero di Marx va inteso "nel suo nucleo generativo più essenziale, come una filosofia o addirittura un'etica della libertà".
L'autore si richiama alle discussioni su giustizia e libertà in Marx nella cultura di lingua inglese (che ha introdotto e antologizzato insieme a Francesco Saverio Trincia: "Marx in America. Individui, etica, scelte razionali", Editori Riuniti, Roma 1992), e in particolare a George Brenkert che aveva identificato il nocciolo della critica della proprietà privata nella "Marx's ethics of freedom" intesa come autodeterminazione e controllo delle circostanze della propria vita, piuttosto che in un principio di giustizia.
Riducendo all'osso un libro ricco di interessanti svolgimenti analitici si potrebbe dire che Petrucciani difende il Marx critico del concetto paleoliberale di libertà come limitazione reciproca degli arbitrŒ individuali e accetta dell'eredità marxiana quanto è condivisibile da un punto di vista latamente socialista (che potrebbe peraltro anche non rifarsi a Marx, se non come a un classico). In sostanza questo nucleo è "il diritto di tutti gli individui a sviluppare le proprie potenzialità e capacità, e a soddisfare in modo più possibile paritario, solidale e cooperativo i loro bisogni". Petrucciani respinge la "cattiva utopia" di una società senza mercati e di una cooperazione sociale intesa come dimensione comunitaria che rende superflua la politica come ambito separato. Oggi occorre ragionare su libertà, solidarietà e autorealizzazione umana "utilizzando strumenti molto diversi da quelli che Marx aveva delineato". E allora "tornano le questioni che si pretendevano superate: quali sono le giuste procedure di decisione, quali le forme di democrazia, quali i diritti degli individui". Soprattutto: "Quali meccanismi istituzionali possono essere pensati, se il fine è quello di pervenire a delle decisioni collettive che promuovano il bene di ogni individuo, e non consolidino i privilegi delle parti più forti e protette del corpo sociale a spese dei settori più deboli o marginali?".
Petrucciani ritiene che l'etica della democrazia che soddisfa anche l'esigenza dello sviluppo delle facoltà e delle capacità di tutti gli individui possa essere svolta a partire dall'etica del discorso delineata da Habermas e fondata con maggiore rigore filosofico da Karl Otto Apel. Habermas e Apel correggono l'unilateralità di Horkheimer e Adorno, che vedono la modernità come manipolazione tecnico-scientifica della natura e degli uomini lasciando completamente in ombra l'altro suo aspetto: i diritti umani e la democrazia. La democrazia, dice Petrucciani, non è soltanto un insieme di procedure di decisione, non si limita neppure a esigere l'eguaglianza dei diritti, ma richiede il principio etico della responsabilità solidale dei cittadini.
Su questa linea, prendendo partito nella discussione tra liberali e comunitari e mettendo in evidenza i limiti degli uni e degli altri, Petrucciani si dichiara sostenitore di un "universalismo forte". "L'unico orizzonte che consente... la critica delle asimmetrie di potere, delle negazioni del riconoscimento, delle (celate o manifeste) relazioni di dominio". In questo "universalismo forte" è certamente fedele a un aspetto importante dell'eredità di Marx e a quell'"atteggiamento di illuminismo militante" che richiedeva Adorno. Ma non nasconde le difficoltà dell'esercizio concreto della democrazia (una "strada impervia") quando confliggono progetti alternativi di vita buona non facilmente riconducibili all'armonizzazione argomentativa, imparziale e solidale degli interessi in gioco, cioè all'ideale regolativo che l'etica del discorso presuppone implicito nella discussione.
Proprio su quanto risulta irriducibile all'universalismo della ragione habermasiana o apeliana (per esempio atteggiamenti politico-religiosi di tipo integralistico o pratiche particolari come l'infibulazione) fa leva Genovese, in un libro ambiziosamente teorico ma piacevolmente leggibile, per sostenere che di comune a tutte le identità culturali c'è solo la forma, lo schema vuoto dell'includere e dell'escludere; che la cultura occidentale stabilisce il criterio di demarcazione di chi è dentro e di chi è fuori dal suo universalismo; che l'ideale del dialogo argomentativo mostra presto la corda e lascia posto nella realtà alla guerra (più o meno "giusta") e all'intolleranza.
Secondo Genovese bisogna approfondire la relativizzazione del nostro universalismo indicata da Foucault e radicalizzare ciò che Habermas gli rimproverava come un torto: la capacità "di guardare le cose della cultura occidentale con l'occhio di un etnologo che osservi i riti di una lontana tribù: la tribù occidentale, con le sue usanze e i suoi costumi, con i suoi sacrifici e la sua violenza", una tribù oggi in pericolosa crisi d'identità, perché con il crollo del comunismo le è venuto a mancare l'altro, il fratello-nemico con cui si definiva e si confrontava. Anche Genovese dedica la parte centrale del suo saggio al bilancio dell'autocritica francofortese dell'illuminismo, che secondo lui si biforca in due lasciti: si può, come fa Habermas, trasformare la ragione oggettiva di stampo hegeliano-marxiano dei vecchi francofortesi nell'accordo intersoggettivo come principio controfattuale e rilanciare l'universalismo in termini formali e procedurali; oppure sviluppare l'altro lato, critico-negativo, in direzione scettico-relativistica, senza farsi perciò paralizzare, anzi cercando le ragioni di un impegno scettico, il quale consiste in ultima analisi nel sostegno a certi micropoteri rispetto ad altri, nella critica degli assetti di poteri-saperi che sembrano ovvi, nell'affermazione di nuove dislocazioni del potere (inteso come capacità d'influenza e risorsa simbolica).
Nonostante la simpatia che può suscitare la formula dello "scetticismo impegnato" e per quanto si possa condividere la richiesta di Genovese che la teoria produca descrizioni nuove e spiazzanti facendo leva sul paradosso e non sulla conciliazione dialettica, osserviamo che comunque occorrono criteri per distinguere le buone cause dalle cattive, i micropoteri da sostenere e quelli da respingere, e che insomma non ci si libera così facilmente da istanze normative di tipo universalistico. Perché buttare via l'universalismo dialogico che aspira a "mettere insieme ciò che di comune le diverse culture hanno tra loro"? E perché continuare a parlare di "Occidente" come se fosse una tribù e non un insieme per nostra fortuna plurale e differenziato (non solo per la compresenza - sottolineata - di modernità e arcaismi)?
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