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A novant'anni dalla rocambolesca avventura dannunziana, vengono pubblicati due volumi che delineano un quadro di ampio respiro intorno a Fiume: sulla città nella storia, con le sue secolari rivendicazioni autonomistiche, nell'esaustivo studio di Giuseppe Parlato, che rimaneggia alcuni saggi scritti fra 1991 e 2001, integrandoli con una sezione inedita; e sulla microepopea fiumana del 1919-20, ripercorsa, grazie a un notevole apparato iconografico, nel contributo di Cavassini e Franzinelli.
La città liburnica, come spiega Parlato, difese a lungo il proprio statuto autonomo. Divenuta più che mai oggetto, dopo Versailles, delle mire italiane, costituì, agli occhi di D'Annunzio e dei suoi seguaci (fra cui De Ambris, Keller, Comisso, ma si registrò anche l'appoggio di Marconi e Toscanini, mentre futuristi, ritenuti portatori di caos, vennero invece cacciati dalla "città di vita" dopo due settimane), la base dell'italico riscatto per la "vittoria mutilata", la piccola ma effervescente sede di una sorta di catarsi nazionale. Il nemico era indicato, in primis, nel verbalismo parlamentare e negli uomini come Nitti, che il Vate ribattezzò "Cagoia", giudicandolo un meschino dedito unicamente alla crapula. Come rileva Parlato, si trattò di un laboratorio politico che, attraverso l'estetismo dannunziano, fuse l'autonomismo con l'irredentismo, declinando il sindacalismo rivoluzionario in "fascismo di frontiera". Lo storico, che correda il testo di un'appendice, si concentra dapprima sulle vicende della Fiume predannunziana; poi sul tentativo, operato da Clemente Marassi al tempo della Reggenza, di porre in essere il programma esposto nella Carta del Carnaro. Quest'ultima prospettava una soluzione organicistica per le aporie della democrazia liberale, che sembravano diventate insostenibili dopo la guerra, senza però cadere nei bolsi principi della reazione.
Franzinelli e Cavassini, sia ponendo in rilievo la coralità dell'impresa, sia mettendone a fuoco alcuni protagonisti, scelgono invece di addentrarsi nell'immaginario fiumano, che, dopo la marcia sulla città dei "Mille di Fiume", fu così ben coltivato, in virtù del magistero affabulatorio di D'Annunzio, da determinare la defezione dall'esercito regio di circa tredicimila elementi, e da creare intorno al comandante, il "poeta-soldato", un infuocato clima di palingenesi. Anche non pochi arditi passarono dalla sua. Proprio nel fiumanesimo, al di là dei motti "Me ne frego!", "Eia Eia Eia alalà!" poi fatti propri dal fascismo, si colgono le significative trasformazioni cui l'arditismo stava andando incontro; e se è vero che l'Associazione nazionale arditi osteggiò l'esperimento, tacciandolo di filosocialismo, è altrettanto vero che D'Annunzio ne trasse a sé parecchi membri, denominando Fiume "l'Ardita d'Italia". Peraltro, la sua incapacità di proporsi quale leader militare durante il "Natale di sangue" del 1920 fu tra le cause della sconfitta dei fiumani davanti alle truppe regie, sconfitta di cui un uomo in particolare, per ragioni che da tempo apparivano ormai chiare, non poté che felicitarsi: Benito Mussolini.
Daniele Rocca
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