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Mi chiamo Sara, vuol dire principessa
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Mi chiamo Sara, vuol dire principessa - Violetta Bellocchio - copertina
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Mi chiamo Sara, vuol dire principessa

Descrizione


Con un ritmo trascinante e una voce potentissima, Violetta Bellocchio ci regala una protagonista senza precedenti nella narrativa italiana, per un romanzo che accompagna il lettore in un lungo viaggio alla scoperta della verità su se stesso.

«Violetta Bellocchio racconta la vita degli altri e ti aiuta a capire cosa vuoi fare con la tua.» - Tiziano Ferro

«Avevo sedici anni, ero più profonda dell'acqua del mare, più forte di qualsiasi dubbio: io ero le mie gambe magre, la mia pelle bianca, la mia bocca dipinta di rosa, il sangue rosso nelle mie vene, l'abito d'oro che stava facendo di me una star, una donna, un'immagine. Io ero fatta di luce.»

Sara arriva a Milano nell’autunno del 1983. È sola. È bella. Ha quindici anni. Vuole essere presa sotto la protezione di Antonio, un deejay bravo a lanciare attori e musicisti di nessun talento. Viene scelta, proprio lei, per dare corpo all’ultima idea di lui: “la rosa di vetro”, una principessa bianca che canta musica elettronica. Così Sara diventa Roxana, una stella del videoclip, con la voce di un’altra al posto della sua. E poi diventa la donna di Antonio, il segreto più prezioso di un uomo adulto. Lui la chiama bimba, animale, anima gemella. Lei impara a muoversi in un mondo fatto di residence, discoteche, studi televisivi e massacranti tournée estive, dove il denaro viene accumulato e bruciato con la stessa facilità, e il trucco è sempre “guardare più lontano”. Ma nel frattempo sta crescendo un’altra Sara, una ragazzina curiosa e selvatica, che non vuole dipendere da nessuno. Un’artista. E quando le due metà di Sara entrano in conflitto, solo la più forte è destinata a sopravvivere.
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Dettagli

2017
11 maggio 2017
286 p., Brossura
9788831727044
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Indice

La prima cosa che facevo, quando arrivavo in città, era andare in piazza della Lupa a guardare la statua della lupa di Roma. Mi sedevo lì sotto e dicevo, la lupa. Non lo dicevo a voce alta: muovevo le labbra e basta. La lupa era bellissima, tutta nera e lucida contro il cielo azzurro. Io la guardavi, ripetevo la lupa, poi le buttavo un bacio sulla punta delle dita, e andavo avanti col resto della giornata. E anche dopo che ero andata via, avevo ricominciato a camminare per le strade della città, quella parola mi correva sulle labbra, la sentivo muoversi, come se fosse il respiro di una persona. Arrivavo a Piacenza con la corriera da Settima, dicevo che andavo a cercare lavoro. Certe volte lo facevo davvero. Certe volte andavo in giro e basta. Passavo ai negozi su Via Garibaldi dove non mi avevano voluto come commessa. Ero troppo piccola. La faccia giusta ce l'avevo, dicevano, e le mani belle anche, le unghie corte e pulita, ma ero troppo piccola. Torna quando hai sedici anni, dicevano. No, io qui non ci torno, pensavo. Però una sbirciata alle loro vetrine la davo lo stesso. Poi andavo a mettermi con la schiena tutta indietro nei bar di piazza Cavalli. Non ordinavo niente, tenevo i gomiti sul bancone e gli occhi fissi sullo specchio, immaginavo di passare le labbra contro lo specchio, come un bacio a bocca aperta, così intorno a me non vedevo niente, e aspettavo, e c'era sempre un uomo che mi veniva vicino e chiedeva se mi poteva offrire qualcosa, allora io dicevo, un caffè, a voce bassa, senza cambiare posizione.

Voce della critica

Sara ha 15 anni, il suo corpo prende forma dentro la sua testa come una magnifica opera d’arte in via di definizione, i suoi pensieri lo modellano, la sua immaginazione lo plasma e lo restituisce al mondo per essere guardato: “Quella mattina io andavo bene. Ero molto, molto bella. Ero piccola e magra, tutta stretta. Avevo la mia minigonna a zebra, la mia maglietta nera nuova. La mia bocca era rossa, la mia lingua rosa, i miei denti diritti. Le mie caviglie sottili, le mie Superga nere”.

Per ora, questo succede solo nei bar di provincia. Siamo a Settimia, una cittadina del piacentino. “Sapevo che me ne sarei andata via presto”, dice Sara, “sentivo la linea che separava me da tutte le altre ragazze del mondo, e quella linea mi indicava la strada”. La strada sarà scappare di casa con le mance racimolate lavorando in una pompa di benzina e schiacciando le tette sui vetri degli automobilisti.

Sara lascia solo un biglietto ai genitori: “Vado a Roma per fare l’attrice di cinema, vi chiamo io quando mi sono sistemata”. Ma la vera meta è Milano, il vero obiettivo è Antonio, “Tony”, speaker di una radio privata e presentatore televisivo con velleità di produttore musicale.

È il 1983 – gli albori di Italia 1 e il boom del Festivalbar – l’inizio di un’epoca in cui i sogni di gloria di un’adolescente si riflettono nell’immaginario da videoclip, negli ingaggi da popstar costruite a tavolino (non serve saper cantare quando c’è il playback), nelle cartoline da santini glam da firmare ai fan o da vendere nelle edicole.

Sara e Tony si innamorano con l’irruenza di due animali, ed è così che amano chiamarsi – animali – si ripetono quella parola, se la gustano, si possiedono, edificano il culto del loro amore, la promessa del futuro: “Negli occhi avevo le immagini di tutto quello che potevamo avere insieme, io e lui. Ho visto stanze d’albergo, un letto sfatto, finestre aperte, il verde del mare”. Tony trasfigura Sara in Roxana, seguendo la scia luminosa della propria visione: una ragazza perfetta, intoccabile, una principessa bianca che cantava pop elettronico.

E Sara si affida con docilità a quella visione – smette di prendere il sole per conservare il candore della propria pelle, si infila in abiti luccicanti, sorseggia drink con la cannuccia – perché è proprio ciò che vuole sentirsi: una principessa, una rosa di vetro. Muta e bellissima. Molto lontana.

Violetta Bellocchio costruisce un personaggio denso, insieme ossessivo e sfuggente, e ha la bravura stilistica di modulare la voce di Sara dalla concitazione di un’adolescente smaniosa (tanto che all’inizio è persino difficile stabilire un’empatia) allo sfibramento dolente di chi comincia a intravedere nei propri sogni il meccanismo dopato che li ha generati.

Se le vacanze dell’83 – come cantano i Baustelle – sembravano sintetiche, quelle di Sara/Roxana scorrono nel delirio ansiogeno di una lunga tournée estiva in giro per i palazzetti dello sport, tra la complicità giovanile con i compagni di tournée (altre popstar in miniatura dai nomi esotici e dall’accento dialettale) e un principio di alienazione che le attanaglia lo stomaco, dagli occhi puntati sulla schiena quando si esibisce sul palco (“La furia con cui venivamo guardati”) alle gocce prese per dormire.

Le canzoni messe al juke-box (Tainted Love, China Girl, qualsiasi cosa degli Chic) sono la colonna sonora di un’estate infinita e il tentativo di costruirsi un senso di appartenenza attraverso l’educazione musicale; i segni incisi sui tavolini dei bar parlano di altre adolescenze spietatamente affini e remote (“Una linea pesante era rabbia, una linea leggera era noia, una linea interrotta era qualcuno che ti aveva tolto il coltello prima del tempo, peccato, cos’avresti potuto fare”).

Tony non è con Sara in quell’estate, il loro amore è un racconto che si lacera nelle telefonate a distanza, che insinua la possibilità del tradimento, che corrompe le promesse nella smania di doverle ribadire. Roxana canta per il futuro, le diceva Tony. Ma il futuro non ha più lo splendore abbagliante di una visione, e la fine dell’estate si trascina in un presente già guasto, dove niente somiglia a ciò che si era immaginato.

“Ti ricordi, in primavera, con quali favole per bambini poveri mi hai riempito la testa?”. Sara non è più una bambina, non è più un’adolescente, la linea che la separava da tutte le altre ragazze del mondo è un groviglio confuso di strade non percorse. Ma Bellocchio non si lascia sedurre dalla spirale micidiale (però facile) del disincanto, e regalerà al suo Requiem for a Dream della provincia italiana la possibilità di un’altra visione.

Recensione di Veronica Raimo.

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Conosci l'autore

Violetta Bellocchio

1977, Milano

Violetta Bellocchio ha lavorato per «Rolling Stone», Radio 2, «Grazia» e la Mostra del Cinema di Venezia.Ha scritto per diverse riviste, tra cui «Marie Claire», «Wired» e «Link» e ha collaborato a una traduzione critica dei testi di Eminem.Ha scritto racconti, gli ultimi compresi nelle antologie Ho visto cose… (Rizzoli 2008), I confini della realtà (Mondadori 2008) e Voi non ci sarete – Cronache dalla fine del mondo (Agenzia X 2009). Ha scritto anche la voce “alligatore” per il Dizionario affettivo della lingua italiana (Fandango 2008).Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo con Mondadori, Sono io che me ne vado. Del 2014 invece il romanzo autobiografico Il corpo non dimentica (Mondadori).Ha...

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