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La miniatura medievale - Otto Pächt - copertina
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La miniatura medievale
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La miniatura medievale - Otto Pächt - copertina
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1987
222 p., ill.
9788833904092

Voce della critica


recensione di Previtali, G., L'Indice 1987, n.10

La traduzione italiana, dopo quella inglese (Oxford, Harvey Miller Publishers, 1986) della "Buchmalerei des Mittelalters" (Munchen, Prestel Verlag, 1984) di Otto Pächt, non può che essere accolta con favore da chi sia appena un po' cosciente del notevole ritardo da cui, nel campo della storia dell'arte, è afflitta la nostra cultura medievistica. Ritardo che si misura bene soprattutto sulle grandi imprese collettive: per esempio nelle parti relative dell'ormai quasi obsoleta "Storia dell'arte" Einaudi (vol. IV) o nei velleitari programmi della annunciata "Enciclopedia dell'arte medioevale" dell'Istituto della Enciclopedia Italiana. Un ritardo almeno in parte storicamente motivato dalla effettiva minor consistenza, rispetto a quella nordica, della produzione artistica in Italia centro-meridionale nei secoli, tra il VII e il XIII, dell'affermazione e dello sviluppo della società medioevale. Non a caso il "medioevo" in cui gli studiosi italiani (a partire dagli allievi di Toesca, da Longhi a Bologna, e poi di Longhi, da Volpe a Castelnuovo a Bellosi) hanno dato i risultati migliori è invece quel periodo, tra il 1270 e il 1420, successivo al "decollo" dell'Italia centrale, che, a seconda dell'ottica da cui lo si è guardato, è stato di volta in volta sentito come un "autunno" del medioevo o, addirittura, un'alba del Rinascimento. Sempre comunque come qualcosa di radicalmente diverso dalla "barbarie" del medioevo nordico.
Prima spia di una presa di coscienza dei propri limiti e quindi delle aspirazioni insoddisfatte di una cultura appaiono, anche in questo caso, le traduzioni. È significativo che, tra i grandi storici dell'arte stranieri, gli autori più tradotti siano stati, soprattutto in passato, quelli addetti allo studio della cultura umanistica rinascimentale italiana (da Berenson a Warburg, a Chastel a Pope Hennessy, e, anche di recente, le opere di argomento non rinascimentale o non italiano di Panofsky, di Gombrich, di Shapiro, siano venute quasi solo a seguito della traduzione pressoché totale delle loro opere), mentre invano si cercherebbe traccia di un equivalente interesse per i loro colleghi medievisti, dai grandi classici del passato (che so io, Kingsley Porter o Puig y Cadafalch) a quelli del presente, Pächt, appunto, o Grodecki.
Si può aggiungere, per il caso di Otto Pächt, l'ultimo grande della gloriosa "scuola viennese", che, a scoraggiare finora l'iniziativa di tradurre in italiano una qualsiasi sua opera possono aver contribuito oggettive difficoltà di realizzazione. Come accade, in generale, per tutti gli autori più legati alla concretezza del testo figurato (si ricordi almeno il caso di Roberto Longhi, poco e mal tradotto, e, in senso inverso, almeno quello di Wilhelm Voge, mai volto nella nostra lingua). La necessità di un uso inventivo e flessibile del linguaggio, piegato ad aderire, spesso metaforicamente alla fenomenologia figurativa, rende infatti i testi di questo tipo di autori assai più difficili da tradurre (tradurre bene, intendo, senza perdere le sfumature) rispetto a quelli di autori più "concettuali" il cui discorso si affida più ad una intima coerenza logica che ad un concreto rapporto con le immagini (Argan, per esempio, è tradotto moltissimo, e senza che se ne perda il meglio).
In storia dell'arte, insomma, gli autori "filologi" (ma bisognerebbe forse dire "filoiconi" o qualcosa di simile) sono, paradossalmente, più difficili da tradurre di quelli "filosofi".
Da questo punto di vista il risultato raggiunto dalla attuale traduzione è solo parzialmente soddisfacente, nel senso che il passaggio dal non facile tedesco di Pächt ad un testo scorrevole, ed italiano, è stato a volte perseguito anche a scapito della faticata ma efficace precisione dell'originale. Valga come esempio il brano a p. 194 dove la affermazione di Pächt, drastica ma storicamente esatta che "l'Italia, dove mai o solo raramente la miniatura è stata perseguita come un fine a sé stante, non ha mai creato uno stile pittorico specificamente riservato al libro" diventa quella, certamente erronea, che "l'Italia non ha mai preso parte con vero entusiasmo agli sviluppi della miniatura, n‚ ha mai creato un proprio stile".
Ma, a monte delle questioni di lingua, libri come questo, che coprono un ambito storico così vasto, divengono veramente "leggibili", riescono cioè ad afferrare e mantenere viva l'attenzione del lettore solo quando hanno la forza di proporsi non già come sommario delle conoscenze, ma come portolano per la navigazione. Se, in altre parole, sanno scegliere bene la tipologia degli esempi relativi, chiarire gli snodi cronologici, porsi come esempi di metodo per lo studio dell'argomento in oggetto. In tal caso duecentoventi pagine splendidamente, ma soprattutto pertinentemente illustrate, possono bastare per condensare e trasmettere una quantità notevolissima di informazioni, tanto più che Otto Pächt - in questo vero coerente discepolo dei grandi formalisti - resiste fermamente alla tentazione di "parlar d'altro". Il suo argomento è l'arte della miniatura e di arte, di procedimenti artistici, di risultati visivi egli sempre rigorosamente discorre.
Nella sua "Introduzione" Pächt ricorda i tempi ("molte decadi fa, quando ero studente") in cui la storia della miniatura (nel medioevo!) era considerata un argomento per studenti poco ambiziosi, marginale alla "grande" storia dell'arte, e rivendica la specificità di questo tipo di produzione e quindi, in un certo senso, l'autonomia di questo campo di studio. Questa convinzione di una funzione specifica e quindi di una storia di qualche misura indipendente ed autonoma della produzione miniatoria è anzi la premessa teorica e il legante di queste conferenze, ma proprio per ben fondare i confini di questa autonomia Pächt tiene sempre sotto fermo controllo ciò che accade negli altri domini della produzione artistica (architettura e scultura, principalmente), in modo da registrare coincidenze, contraddizioni, scarti, precedenze, ritardi. Così il tralcio abitato della miniatura della Francia del Nord dell'XI secolo "diventerà uno dei motivi decorativi preferiti della scultura romanica, cioè della nuova scultura monumentale, ma solo un secolo dopo" (p. 84); così nell'Università di Parigi nel Duecento nasce per la prima volta, in occasione della nuova edizione "tascabile" della Bibbia, uno stile "miniaturistico" in senso proprio, che è però "contemporaneo allo stile monumentale della scultura delle cattedrali" (p. 146); così lo stile gotico fu adottato dalla miniatura solo cent'anni dopo la sua apparizione in architettura.
Sono poi le articolazioni interne del discorso figurativo che rinviano, quando è necessario, a ciò che sta "dietro". Per esempio il "periodo d'oro per l'illustrazione medioevale della Bibbia" nel XII secolo rinvia alla grande riforma monastica (p. 35). Ma non sempre è un rinvio che serve a confermare ciò che già si sapeva: per esempio è proprio la miniatura a parlarci di una influenza normanna in Inghilterra anteriormente alla conquista (p. 88). Si rinnova così il miracolo del grande storico che attraverso la storia particolare riesce a farci vivere la storia senza aggettivi. Quella che è stata chiamata, volta a volta, storia generale, storia economico-sociale, e così via. Alla grande e commovente vicenda del medioevo occidentale, della decadenza rovinosa della società e della cultura ellenistico-romana, del salvataggio dei loro sparsi lacerti, del loro avventuroso riutilizzo nelle circostanze e nei contesti più inattesi, la storia del libro miniato come la concepisce Otto Pächt aggiunge un capitolo dei più avventurosi e dei meglio documentati. Nata con l'astrazione tardo-antica la miniatura come "linguaggio specifico" è destinata a scomparire con la riconquista moderna e italiana della tridimensionalità dello spazio figurato. Ma non prima di aver illuminato con le sue metamorfosi otto secoli di storia dell'Occidente.


recensione di Emmer, M., L'Indice 1987, n.10

"Nessuna humana investigazione si può dimandare vera scienza s'essa non passa per le matematiche dimostrazioni". Con questa frase del suo "Trattato della Pittura", Leonardo da Vinci chiariva che essendo il fine della pittura la riproduzione della natura, il pregio di un dipinto consisteva nella esattezza della riproduzione, e la pittura doveva essere di conseguenza una scienza e come tutte le scienze basarsi sulla matematica. Quando si parla dei possibili rapporti tra matematica ed arte, la prospettiva è l'esempio più citato. Il matematico Morris Kline nel suo libro "La matematica nella cultura occidentale" (Feltrinelli, 1976) ha scritto: "La creazione matematica più originale del Seicento, un secolo in cui la scienza forn la motivazione determinante per l'attività matematica, fu ispirata dall'arte della pittura. Sviluppando il sistema della prospettiva lineare, i pittori introdussero nuove idee geometriche e posero vari interrogativi che suggerivano una direzione di ricerca del tutto nuova. Così gli artisti pagarono il loro debito alla matematica".
È tradizione antica che i matematici si interessino delle possibili reciproche influenze tra la loro disciplina e l'arte, sia nel senso di una intrinseca "bellezza" dell'attività creatrice del matematico, sia nel senso di un possibile approccio "matematico" all'arte. Le Lionnais nel volume "Les grands courants de la pensée mathématique" (1962), nel suo saggio "La Beauté en Mathématiques" scrive tra l'altro: "La bellezza si evidenzia nella matematica come nelle altre scienze, come nelle arti, nella vita e nella natura. Le emozioni che la matematica suscita sono talvolta paragonabili a quelle della musica pura, della grande pittura o della poesia".
Più recentemente il matematico Ren‚ Thom ha considerato in dettaglio le relazioni tra arte e scienza nel suo saggio "Local et global dans l'oeuvre d'art" (1982): "Una volta stabilito che si debba costruire un ponte tra la Scienza e l'Arte, non vi e dubbio che tale passaggio può essere percorso secondo due direzioni: dall'arte verso la scienza o al contrario dalla scienza verso l'arte... Al contrario degli artisti che cercano di trovare nella cultura scientifica una garanzia per le loro iniziative creatrici, io vorrei, percorrendo la passerella nell'altro senso, esporre la perplessità dello scienziato di fronte all'enigma della bellezza. È possibile fondare, si potrebbe vagheggiare una teoria 'scientifica' dell'estetica?"
Della problematica connessa ai rapporti tra arte e scienza si occupa la rivista anglo-americana "Leonardo" fondata venti anni fa da Roger Malina. L'ultimo numero del 1987 è un numero speciale dedicato al tema del futuro dell'arte e dell'arte del futuro. Nel mio intervento ho osservato che: "Si dice spesso che l'arte del futuro dovrà basarsi sull'uso delle cosiddette nuove tecnologie, la grafica computerizzata in particolare. Negli ultimi anni, grazie alla sempre maggiore sofisticazione dei mezzi tecnici, un nuovo settore della matematica si è venuto sviluppando. Si potrebbe chiamare 'Matematica visiva'. Nel considerare i problemi in cui la visualizzazione gioca un ruolo importante, i matematici hanno ottenuto delle immagini il cui impatto estetico ha finito per riguardare anche persone che non erano strettamente interessate alle questioni scientifiche che le avevano generate". Anzi la stessa parola visualizzazione è in qualche senso inadeguata. Infatti in molti dei problemi matematici recentemente affrontati utilizzando la grafica computerizzata, l'elaboratore non è stato semplicemente utilizzato per "illustrare" fenomeni ben noti ma la sua possibilità di "rendere visibile" si è dimostrata essenziale per riuscire a comprendere i fenomeni stessi. In questi ultimi anni lo studio per così dire "visivo" di talune questioni ha portato i matematici a creare delle nuove immagini che rapidamente si sono diffuse anche al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori; fenomeno del tutto peculiare dato che se è già abbastanza inusuale che si parli di scienza in generale (tranne le situazioni particolari delle ricerche mediche e ambientali), lo è del tutto per quanto attiene alla matematica.
Per questo genere di immagini è già stata coniata una nuova parola: Math-Art. Si organizzano mostre che girano per i musei della scienza e per i musei d'arte. Non vi è dubbio che uno dei fenomeni più interessanti da questo punto di vista è stato ed è quello dei frattali nello studio dei quali si sono ottenute immagini tanto complesse che non avrebbero potuto essere realizzate senza le capacità grafiche degli attuali elaboratori.
Nel 1984 Mandelbrot, ripensando alle sue prime esperienze con la geometria frattale, ha scritto: "Perché spesso la geometria viene descritta come fredda e arida? un motivo è la sua incapacità di descrivere la forma di una nuvola, di una montagna, di una costa o di un albero. Le nuvole non sono sfere, le montagne non sono coni, le coste non sono circoli e gli argini non sono regolari, nemmeno la luce viaggia secondo una linea retta... La natura non rivela semplicemente un grado più alto ma un livello del tutto diverso di complessità".
La geometria dei frattali vuole presentarsi come la geometria più adatta per studiare la complessità della natura; nel realizzare un libro come "La bellezza dei frattali", Peitgen e Richter hanno voluto non solo presentare la teoria matematica che ne è alla base ma hanno, si può dire, utilizzato delle "idee matematiche" come illustrazione se non addirittura come pretesto della loro attività creatrice. Nell'introduzione del libro si richiama esplicitamente la possibilità di una ricongiunzione tra il linguaggio scientifico e quello artistico. È il matematico stesso a proporsi come artista, senza mediazioni. Tanto evidente è questa ambizione che uno dei saggi del volume è firmato da un artista e studioso di computer art, Frankel, che tra l'altro scrive: "I critici d'arte nei secoli a venire considereranno, mi auguro, la nostra epoca e arriveranno a conclusioni piuttosto diverse da quelle degli esperti contemporanei. Molto probabilmente i pittori e gli scultori oggi stimati saranno quasi stati dimenticati, e invece la comparsa dei media elettronici sarà salutata come la svolta più significativa nella storia dell'arte. Quelle prime tappe e quegli incompleti tentativi nel raggiungere l'antico traguardo, soprattutto l'espressione e la rappresentazione pittorica del nostro mondo, ma con nuovi mezzi, riceveranno finalmente il dovuto riconoscimento. L'arte di ogni epoca ha usato i mezzi del suo tempo per dare forma all'innovazione artistica, innovazione che non è mai avvenuta per ragioni veramente tecniche o pratiche... Perché non dovrebbe il computer, quale mezzo universale di informazione e di comunicazione, che ha invaso anche le nostre case, venire usato come mezzo e strumento di Arte"?
Non so se nel prossimo futuro l'annosa questione della possibilità di un linguaggio comune tra l'arte e la scienza passerà attraverso l'utilizzazione della 'computer graphics'. È molto probabilmente un problema mal posto dati gli scopi diversi degli scienziati e degli artisti. Non vi è dubbio comunque che gli scienziati, i matematici in particolare, hanno enormemente allargato il mondo delle immagini scientifiche a disposizione: in pochi anni si è creato un nuovo "immaginario scientifico".
Io ritengo che, come nel Rinascimento, dovranno essere ancora una volta gli artisti, e perché no i critici e gli storici dell'arte, a pagare il loro debito alla matematica analizzando questo nuovo fenomeno e cercando di afferrare qualcosa dei problemi scientifici e matematici che ne sono alla base. Altrimenti chi impedirà ai matematici di essere gli artisti del futuro?

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