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Sul pavimento in un angolo del mio studio c'è una vecchia e malandata cartellina verde, che sporge da sotto una pila di carte varie. La cartellina contiene un dattiloscritto che credo mi racconterà molte cose su mio padre e sul mio passato. Da quando il dattiloscritto è stato ritrovato, gli ho dato un'occhiata, l'ho abbandonato, mi sono dedicato ad altre cose, ci ho pensato un po' su, ma in definitiva non ho fatto niente. Il dattiloscritto mi è stato consegnato qualche settimana fa. È sbucato fuori dopo più di undici anni. È un romanzo che ha scritto mio padre, un'eredità di parole, forse sono delle ultime volontà protratte nel tempo. Non so ancora cosa contenga. Come tutte le sue opere di narrativa, non è mai stato pubblicato. Credo che dovrei leggerlo.
La rivisitazione della propria vocazione letteraria alla luce del rapporto con il padre è ormai un piccolo sottogenere della narrativa di lingua inglese. Ne fu un antecedente Mio padre e io di J.R. Ackerley (1968; Adelphi, 1981), e ne è forse l'esempio più illustre Esperienza di Martin Amis (2000; Einaudi, 2002). L'ultimo libro di Kureishi si inserisce alla perfezione in questo filone; ma se per Martin Amis si trattava di confrontarsi con le pastoie di un soffocante successo (la caustica intelligenza, l'eccellenza letteraria, del padre Kingsley), per Kureishi si tratta invece di fare i conti con un'eredità di fallimento. Shannoo Kureishi è infatti il tipico padre che nessun figlio vorrebbe diventare: un piccolo borghese di periferia ossequioso dell'autorità, spaventato dal mondo e incatenato a un matrimonio infelice e a un lavoro umiliante. Al figlio non resta allora che un ruolo altrettanto tipico: realizzare le ambizioni frustrate del genitore. In questa caso, la scrittura.
Shannoo è infatti prolifico autore di romanzi mai accettati da alcun editore, e quella di Il mio orecchio sul suo cuore è più che altro la storia di questi romanzi postumi e malscritti, che il figlio ormai scrittore pluriaffermato si preoccupa di salvare dall'oblio, riraccontandoli al lettore con dovizia di particolari. È un'operazione disturbante, in costante bilico tra pietà figliale e velenoso snobismo letterario, che dovrebbe portare alla scoperta di una qualche verità intima (appunto: il mio orecchio sul suo cuore), ma alla fine porta solo a un pareggio dei conti un po' squallido: "Forse facendo questo, gli ho restituito qualcosa. Forse il debito è saldato".
Di Kureishi sconcerta sempre un po' la superficialità. Di libro in libro la sua scrittura gira in tondo, come scivolando sulla superficie di un mondo che non gli offre appigli, se non un malcelato disprezzo e un tenue autocompiacimento. Così anche questa presunta ricerca delle radici si infrange sugli scogli di una noia venata di depressione. Se il Pakistan dei parenti lontani è un covo di fanatici e corrotti, nelle moschee londinesi non si trova che "ideologia e fondamentalismo, e persone giovani che avevano visioni estreme, violente e irrazionali, insieme all'incapacità di ricollegarsi con le forme più elementari del ragionamento". Nelle relazioni d'amore poi c'è poco più che un insensato precipitare degli eventi dall'illusione allo sconforto. Resta, naturalmente, la scrittura. E su questa strada si ergono inossidabili segnavia: Naipaul, Philip Roth, l'immancabile Čechov, i preziosi editor di riviste e case editrici, il classico zio viveur che aiuta il nipote a sfuggire al grigiore della vita familiare. E, tra questi segnavia, eternamente in panchina, anche il padre Shannoo, con "l'energia del suo ferreo impegno", e la sua imbarazzante mancanza di talento.
“Per tutta la vita mio padre sembra essere stato tormentato dalla domanda: come fai a trovare qualcosa che abbia in sé un significato, un valore, che non possa essere messo in dubbio? E questa domanda conduce all’altra: come dovrei vivere? Mio padre pensava che la scrittura fosse la risposta a questi dubbi.”
La centralità del rapporto col padre s’impone a un certo punto del percorso letterario degli scrittori, diventa ineludibile, perché ha a che fare con il problema dell’identità. In un autore come Hanif Kureishi il rapporto con il padre è addirittura all’origine della sua vocazione letteraria, perché a lui è toccato realizzare i sogni delusi di suo padre, autore di numerosi romanzi sempre respinti dalle case editrici. Questo tipo di rispecchiamento è stato complicato dalla conflittualità dei ruoli nella famiglia Kureishi, per la diversità etnica del padre, pachistano. Pur avendo studiato in scuole inglesi e avendo sposato un’inglese, Shani Kureishi era pur sempre un immigrato, e il suo mondo era quello ritratto da Hanif nel romanzo Il Budda delle periferie. Come mezzosangue, Hanif ha sempre dovuto fare i conti con la sua situazione liminare, esposto agli strali del razzismo ma nello stesso tempo desideroso di integrarsi: lasciare la periferia per trasferirsi a Londra, conoscere il successo come drammaturgo, sceneggiatore e romanziere, ha voluto dire per lui emanciparsi dal disagio della non-appartenenza e installarsi nella zona franca concessa agli artisti.
Undici anni dopo la morte del padre, Hanif ritrova casualmente il manoscritto dell’ultimo romanzo scritto da lui, l’autobiografico Un’infanzia indiana: dapprima lo legge con apprensione e disagio, poi incomincia a sviscerarlo quasi scientificamente, lo analizza e lo commenta, lo confronta con i libri autobiografici scritti da suo zio Omar, celebre giornalista pakistano, sempre invidiato dal fratello Shani, e infine ricostruisce una storia di famiglia che in qualche modo lo riconcilia con le sue radici.
Questo nuovo libro di Kureishi è come l’ordito di fili diversi: i romanzi del padre, i libri dello zio, i suoi stessi libri e perfino un diario giovanile sono citati e intrecciati, per valutare da punti di vista differenti la storia di una famiglia e in qualche modo di un popolo e di una nazione, perché i Kureishi erano esponenti dell’alta borghesia musulmana che nel 1947, al tempo della partizione, in parte si era trasferita da Bombay a Karachi e in parte si era disseminata nel mondo occidentale. Questo itinerario tra storico e psicologico produce un cambiamento nello scrittore, sembra che sia addirittura terapeutico, perché se all’inizio il suo atteggiamento nei confronti del padre è piuttosto insofferente e contestatore, alla fine ristabilisce con lui una continuità conoscitiva ed affettiva: “Dalla scrittura di mio padre, dall’energia del suo ferreo impegno, ho trovato le mie storie da raccontare. Non riesco a dire abbastanza che piacere sia stato questa vita di scrittura e come mi abbia sostenuto e abbia creato il me stesso che sono. Forse facendo questo gli ho restituito qualcosa. Forse il debito è saldato.”
A cura di Wuz.it
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