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Tante considerazioni interessanti, alle volte mi pare tirare Smith per la giacchetta in modo un po' eccessivo e la delusione di riferimenti al governo Berlusconi che fanno diventare la dissertazione scientifica della polemica politica di basso profilo.
Recensioni
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L'autore, economista e storico del pensiero economico, chiama questo libro modestamente "libricino". Di piccolo però il libro ha solo il numero delle pagine: non sono certo piccole le questioni sollevate né la conoscenza delle teorie economiche con cui l'autore le affronta.
Ci sono almeno tre ragioni per raccomandarne la lettura. La prima è la rilevanza per la comprensione del mondo contemporaneo e per il dibattito politico delle domande che il libro si pone: quali sono i meriti e i demeriti di un'economia di mercato, che cosa si può correggere e come. La seconda è l'interessante metodo seguito di servirsi delle idee dei giganti dell'economia (quali Keynes, Smith, Schumpeter e Sraffa) per far comprendere al lettore, attraverso contrapposizioni e analogie, che l'accettazione dell'economia di mercato non è necessariamente monolitica, ma ha assunto numerose sfaccettature all'interno del pensiero economico. La terza è la chiarezza dell'esposizione. Roncaglia ha già dato prova delle sue ottime qualità didattiche in numerosi testi (anche in una interessante serie per la Rai sui grandi economisti del passato, La fabbrica degli spilli , purtroppo, come quasi tutte le cose buone della Rai, non adeguatamente diffusa). In questo libro dimostra ancora una volta che con opportuni accorgimenti, quali il ricorrere frequentemente a esempi e classificazioni, si può essere comprensibili a molti senza sacrificare accuratezza e intelligenza.
Il libro è una riabilitazione di Adam Smith, vittima della sua troppo fortunata metafora della "mano invisibile" che lo ha trasformato in quella caricatura di ultraliberista con cui appare negli attuali manuali di economia e nei discorsi dei neo-convertiti alle meraviglie del libero mercato. Roncaglia ci mostra invece che esistono due tradizioni a favore del mercato all'interno del pensiero economico. La prima, dove impropriamente viene collocato Smith, vede il mercato come sistema "naturale" di relazioni economiche, grandioso meccanismo perfetto come un orologio, dove ogni intervento correttivo è un rimedio peggiore del male che viene a disturbare il funzionamento degli ingranaggi. All'interno di questo filone di pensiero la disoccupazione è solo un problema di ostacoli posti da sindacati e istituzioni al libero funzionamento del mercato del lavoro e la disuguaglianza sociale è il risultato della naturale diversità nella distribuzione dei talenti. In sostanza, i poveri e i disoccupati sono responsabili della loro condizione, i primi perché hanno poche qualità appetibili per il mercato e/o non hanno sapute valorizzarle, i secondi perché hanno aspettative salariali troppo alte e/o non accettano la necessaria flessibilità nelle condizioni di lavoro. Il rimedio a questo tipo di problemi è più concorrenza e meno vincoli; sarà la crescita economica che ne deriva a risolverli. Ci sarà forse più disuguaglianza, ma è un prezzo da pagare per i livelli di ricchezza e di reddito che in termini assoluti cresceranno per tutti. All'interno di questa visione lo stato è esterno al mercato, anzi è spesso contrapposto a esso. Non solo il mercato viene presentato come insofferente delle restrizioni, ma anche compatibile con qualunque forma di organizzazione politica, dittature comprese (si pensi alla Cina e ai suoi numerosi ammiratori).
Smith e molti altri dopo di lui avevano però un'altra idea del mercato. Come dice Roncaglia, non "una mano invisibile a cui affidarsi passivamente, ma una istituzione complessa, all'interno della quale vi è uno spazio assai vasto per l'intervento politico consapevole, diretto a realizzare simultaneamente giustizia sociale e libertà". Il mercato di Adam Smith genera ricchezza, per l'aumento della produttività che segue alla divisione del lavoro, ma il suo funzionamento richiede una costante attenzione per evitare che si creino posizioni di privilegio e concentrazioni di ricchezza che si trasformano in potere politico, che inevitabilmente finisce per legiferare a proprio esclusivo vantaggio. Per questa tradizione di liberismo, la libertà economica è un aspetto della libertà più in generale, ed efficienza ed equità non sono alternative, come invece oggi si insegna nei corsi di economia. Si pensi all'importanza dell'uguaglianza delle condizioni di partenza per permettere che ciascun individuo possa dare il massimo contributo al benessere sociale sviluppando le proprie capacità.
Seguendo questa tradizione in cui la teoria economica è al servizio della passione civile, Roncaglia conclude il libro suggerendo i capisaldi di un possibile programma politico riformista: istruzione pubblica fondata su dieci anni di formazione di base comune per tutti, regolamentazione a difesa dell'ambiente e della salute, privatizzazioni solo dopo l'abbattimento delle posizioni monopolistiche, regole certe per la pubblica amministrazione per combattere la corruzione. L'intervento pubblico, dunque, non come ampliamento della sfera statale, ma come indispensabile sostegno al mercato, da esercitarsi con quello ésprit de finesse critico aperto e flessibile che animava l'analisi di Smith.
Annalisa Rosselli
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