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Museo Spa. La globalizzazione della cultura - Paul Werner - copertina
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Museo Spa. La globalizzazione della cultura - Paul Werner - copertina

Descrizione


Museo S.p.A. non è un libretto sul Guggenheim Museum, e nemmeno sui musei in generale. È un pamphlet che svela i meccanismi perversi dell'arte attraverso la parabola di un museo trasformato in multinazionale. Il museo in questione era il Guggenheim di New York, il suo diabolico ideatore un uomo di nome Tom Krens. La formula era semplice, assolutamente in linea con i tempi: l'arte era una merce come tutte le altre. E come tutte le merci, andava impiegata a scopo di lucro. La bolla speculativa aveva di nuovo colpito nel segno: il binomio arte-business era stato sdoganato, e il Guggenheim iniziò ad aprire filiali in tutto il mondo. Ma l'arte può essere trattata come un Big Mac o una scatola di Corn Flakes? Quali sono le conseguenze di questo assurdo disegno dopo lo scoppio della crisi economica mondiale? Paul Werner ha lavorato per nove anni al Guggenheim Museum di New York e ha vissuto dall'interno questo cambiamento epocale. Da esperto di arte contemporanea è passato improvvisamente a tuttologo, costretto a spaziare dall'arte cinese agli abiti Armani dall'arte africana alle motociclette e perfino alla vaselina
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Dettagli

2009
26 novembre 2009
78 p., Brossura
9788860100573

Voce della critica

Il piccolo libro di Paul Werner, pubblicato nella collana "Arte/Economia" dell'editore Johan & Levi, non è semplicemente un testo di economia della cultura. In primo luogo, l'autore non è un economista, bensì un artista e uno studioso d'arte contemporanea; in secondo luogo, le sue riflessioni non si sviluppano all'interno dell'economia della cultura, bensì intorno a questo campo di studi e di azione, con l'intenzione di svelarne le contraddizioni e le ipocrisie.
Werner trae dalla propria esperienza di collaboratore, di conferenziere e di guida del museo Guggenheim di New York gli esempi concreti per le sue tesi; esse oltrepassano però il caso specifico, dato che l'internazionalizzazione di quel museo guidata da Thomas Krens, direttore della fondazione Guggenheim dal 1988 al 2008, sembra rappresentare ancora oggi un modello per numerosi musei europei. L'autore dedica diverse pagine a dimostrare che l'ideale del godimento "disinteressato" dell'arte, propugnato a parole da quasi tutti gli attori del mondo dell'arte, nasconde concreti interessi economici: ad esempio, dato che i mecenati di un museo sono spesso anche collezionisti, le mostre organizzate da un museo possono avere conseguenze assai interessanti sulle quotazioni delle opere da loro possedute in privato. Sebbene Werner avanzi questa osservazione relativamente ai musei statunitensi, sottoposti a consigli d'amministrazione autonomi, si può credere che il carattere pubblico della maggior parte dei musei europei non li metta del tutto al riparo da simili conflitti (o "accordi") d'interesse. Thomas Krens, sostiene Werner, avrebbe giocato a carte scoperte sul tavolo economico-culturale, facendo esplicitamente del suo museo il luogo dove accrescere il valore di oggetti ben inseriti nei circuiti commerciali; un caso paradigmatico è quello della mostra "Giorgio Armani", allestita nel 2000 a New York e l'anno successivo a Bilbao. Krens – scrive Werner – "portava la menzogna alla luce del sole, svelando la vera faccia del disinteresse" artistico. Quando la funzione principale del museo diventa la produzione di un valore economico, le professionalità che contano, al suo interno, non sono più quelle di coloro che possiedono la migliore conoscenza degli oggetti, delle collezioni e della loro storia, bensì quelle degli architetti allestitori, dei manager, degli economisti: così si spiega, sottolinea Werner, la scarsa qualità scientifica di molti cataloghi pubblicati dal Guggenheim negli anni di Krens.
Werner non si limita a denunciare l'ambiente in cui si è trovato a lavorare, ma affronta, con occhio disincantato e con gli strumenti della critica marxista, altri temi cruciali, come il ruolo del museo e delle altre istituzioni dell'arte nel definire e rinforzare le divisioni tra le classi sociali. Qualora si avessero dubbi sull'applicabilità della sua analisi alla situazione europea e italiana, si potrebbe menzionare la fulminante definizione che egli dà del "non-profit", un settore al quale si fa spesso affidamento anche nel vecchio continente: "Non-profit è una parola in codice per designare l'accumulazione tramite il valore d'uso al servizio delle forme tradizionali di accumulazione". In altri termini, un ente senza scopo di lucro, come una fondazione, può generare un guadagno; soltanto, lo fa in modo indiretto. Non vi sarebbe nulla di condannabile nell'esercizio di un'attività lucrativa da parte di un museo, se questa attività non dovesse basarsi proprio sull'occultamento di quella finalità o sulla negazione della ragion d'essere del museo. Infatti, l'autorevolezza del museo si fonda sulla sua indipendenza. Se esso è in grado di attribuire valore agli oggetti che transitano nelle sue sale nonché ai marchi dei suoi sponsor, emanando su di loro l'aura dell'arte e della cultura, ciò avviene perché le scelte dei direttori non sono orientate al guadagno, bensì alla divulgazione della conoscenza. Se il visitatore sospettasse che un oggetto non si trova esposto per il suo valore storico, didattico o "estetico", ma affinché il proprietario o lo sponsor possano moltiplicare il valore economico del loro investimento, il museo perderebbe la sua autorevolezza, trasformandosi in una vetrina commerciale.
Non sempre la cultura è nemica del guadagno, né la maggior parte dei musei agisce secondo interessate logiche commerciali; ma dato che oggi, in tutta Europa, le amministrazioni pubbliche tendono ad assegnare alla cultura una semplicistica funzione economica, è bene chiedersi, anche con l'aiuto di Paul Werner, quali siano le premesse e le ragioni di tali scelte politiche, quali i rischi e, perché no, quali i veri beneficiari.
Nicola Prinetti

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