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Il libro di Humphries è un tipico esempio di biografia rock "in stile anglosassone", ricca di testimonianze dirette raccolte sul campo. Il tutto proposto in una forma narrativa, scorrevole e piacevole, delicatamente affettuosa nei confronti del suo soggetto. Un compito difficile e perciò ancor più valido e apprezzabile data la breve vita di Nick Drake e l'alone di riservatezza che ha sempre accompagnato la sua figura, anche dopo la tragica scomparsa nel 1974, a soli 26 anni, per una dose letale di psicofarmaci. Humphries ha sfidato la reticenza di molti recuperando importanti testimonianze; il suo libro ha il pregio di raccontare Nick Drake per quello che è stato ed ha vissuto, senza voler fare dello sterile sensazionalismo sulla sua morte, né voler chiarire a tutti i costi se si sia trattato di suicidio o di un fatale errore. In appendice il testo di Humphries viene impreziosito da un'analisi del musicologo Stefano Pogelli sulle accordature per chitarra usate dal cantautore inglese, appositamente realizzata per l'edizione italiana.
Era difficile non farsi trascinare dalla leggenda Nick Drake per parlare dell'uomo e del musicista Nick Drake. Fra i pregi di questo libro, infatti, c'è senz'altro il fatto di non essere preda degli istinti agiografici del caso e di aver cercato di restare aggrappato a una biografia che ci appare sfuggente proprio come ci si aspetterebbe. Ma Humpries è andato a stanare i vecchi amici e conoscenti di Drake, i colleghi, gli addetti dell'Island, è tornato su quegli stessi luoghi in cui il cantautore inglese ha lasciato una traccia seppur flebile. Si viene così a scoprire che Nick Drake ebbe un'infanzia felice e al college era un ragazzo magari pensieroso ma tutt'altro che problematico, con una famiglia sempre presente e dei compagni affezionati, sempre pronto a lasciare la sua chitarra per la pista d'atletica e il campo da rugby. In un'atmosfera tanto limpida e ovattata non si capisce bene come possa essere saltato fuori all'improvviso il contratto con una grossa etichetta come la Island, tanto che poi sembra quasi normale che i suoi dischi non vendano, che a fare le orchestrazioni per Five Leaves Left chiami uno dei suoi amici, John Boyd, o che abbia il terrore di salire su un palco.
Humpries non si dà per vinto e la sua disamina è sempre accurata e preziosa (anche a livello squisitamente critico), nonostante si senta che solo a stento riesce ad avvicinarsi al nucleo di quel segreto e progressivo ritrarsi dal mondo che è stata la cifra della vita del cantante e chitarrista inglese. Vengono così messe in fila una dietro l'altra le tappe che porteranno Nick Drake a una morte prematura: le fughe di ogni tipo, la ritrosia a mostrarsi in pubblico, le domande ossessive che non trovavano mai uno straccio di risposta, gli antidepressivi. Mai come per altri artisti vale il motto turandottiano del "mio mistero chiuso in me". Infine nel 1972 usciva Pink Moon, l'ultimo di soli tre dischi la cui influenza è però avvertibile ancora ai giorni nostri, nuda voce e chitarra acustica, poi da Londra si tornava nell'utero di Tanworth-in-Arden, il mondo si chiudeva definitivamente su quella "pelle troppo sottile" di cui parla la sorella Gabrielle in un'intervista. Questa è una di quelle storie che si sa già come vanno a finire ma commuove comunque, anche nella lucida e precisa trasposizione che ne fa Humpries, ed è quasi un sollievo arrivare al fondo e poter leggere il bel saggio di Stefano Pogelli sulle accordature che usava Nick Drake per trascinarci con la sua chitarra doveva voleva lui.
Roberto Canella
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