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SANADER, IVO (A CURA DI) / STAMAC, ANTE (A CURA DI), Non è terra bruciata, Book, 1995
HAMULIC TRBOJEVIC, MERIMA, Sarajevo oltre lo specchio, Sensibili alle Foglie, 1995
recensione di Frigessi, D., L'Indice 1995, n. 9
Sono nata a Trieste e da sempre ho provato per i Balcani un misto di attrazione e di ripulsa, quasi uno stereotipo. Le letture e gli studi, il fatto stesso di allontanarsi dal confine orientale ma anche gli interessi politici mi hanno in seguito portata ad appassionarmi alla storia di quelle terre che continuavano tuttavia a sembrarmi amare.
La guerra di questi anni ha cambiato ancora gli orizzonti e le prospettive e ha messo Trieste, città antislava per storica "vocazione", che ha rifiutato in questo dopoguerra la mescolanza etnica e l'apertura, a fare di nuovo da sentinella su un confine tormentato. La mia città mi è sembrata sempre poco incline a riflettere sui rischi dell'intolleranza e della violenza in un'area del mondo in cui si sono scontrati per secoli popoli e culture. In luoghi in cui, quasi per contrappasso, si sperimenta oggi la solitudine e l'indifferenza dell'Europa di fronte alle guerre fratricide, e l'estrema resistenza si esprime nella voce dei poeti che ancora sanno nominare dio e la patria: "Fu già detto all'Europa / Regnum regno non praescribit leges. / Ma lei di nuovo di sé si è inebriata / dimenticando le nostre catene" (M. Slavicek, "Monologo urgente").
Questi versi, e gli altri raccolti in un'antologia di poesie della guerra in Croazia, erano dapprima comparsi in due riviste di Zagabria e di Fiume ("Zrcalo" del '91 e "Dometi" del '92); l'edizione italiana tiene coltro di un'accresciuta seconda edizione croata. Le poesie hanno una grande forza comunicativa. Scrive Zeljko Sabol, la prima vittima della guerra tra i letterati: "Questo non è un romanzo, questo non è un film, / vicino a me esplosioni, vicino a me il fumo, / il sonno non cala sugli occhi nemmeno all'ora più tarda, / cercavamo l'amore, ma abbiamo avuto la guerra" ("Avevo una casa, avevo una dimora"). Da questa sventura è rinata la poesia croata, "che sgusciata dalla pietra era tutto sangue" e ora "per sbaglio / si è messa a cantare (Majetic, "La teoria della poesia dei croati nell'anno 1991, 1992, 1993"...).
Nel "Serpente" del premio Nobel Ivo Andric (ripubblicato da Newton Compton con altri racconti e con un titolo di attualità; "Racconti di Bosnia", in edizione economica), la protagonista (austriaca), che durante un viaggio di vacanza incontra la miseria, la disperazione e la rassegnazione dei contadini slavi, alla fine esclama: "Vale la pena di piangere sulla Bosnia"? La Bosnia un paese aspro e difficile di natura, con montagne impervie, terreni poco coltivati e cattive vie di comunicazione, preda per un millennio di incursioni e di occupazioni straniere (bulgari e magiari, turchi e austroungarici) prima di far parte della Jugoslavia e accedere nel 1992 all'indipendenza. La Bosnia è diventata soprattutto una patria spirituale, dove gli orologi dei templi (a Sarajevo) battono quattro ore diverse.
Dalla Bosnia, da Sarajevo a Trieste la distanza non è molto grande, ma è stata profonda, quasi insormontabile per Merima Hamulic Trbojevic, che con il figlio di due anni l'ha lasciata qualche settimana dopo gli inizi della guerra. Musulmana di famiglia, di professione giornalista a "Oslobodenje", il glorioso quotidiano che ha continuato a uscire in Sarajevo assediata, Merima si è dapprima rifugiata a Belgrado, aiutata dalla solidarietà di gruppi di donne, e poi, venuta a Trieste per un convegno, ha chiesto asilo e lo statuto di rifugiata e ha finalmente trovato lavoro al Centro Donna-Salute mentale. La sua è una storia di sradicamento e di ritrovamento, raccontata in filigrana attraverso alcuni ritratti di donne, scritti tra il '92 e il '94 e finemente introdotti con pagine lucide da Fabrizia Ramondino ("Per i diritti umani qui-e-altrove").
"A volte mi trovo nel dubbio: sono io o no, perché mi vedo come una persona nuova, mai conosciuta prima... io sono diventata una sconosciuta, persona senza casa, senza famiglia, senza ricordi più o meno cari". Violenza e guerra distruggono la memoria del passato e l'immagine del futuro, che non esiste più. Il senso della vita sembra perduto. Gli psicoanalisti hanno studiato il cambiamento catastrofico che caratterizza l'esilio e l'emigrazione forzata, e specialmente il rischio di perdere la propria identità. Merima lo supera grazie alle altre donne, che l'aiutano a dare un senso alla sua sofferenza e a non dimenticare se stessa. Lo scambio tra donne è uno strumento di salvezza, "le persone sono l'unica medicina contro la solitudine". Merima riesce a ritrovarsi, a riconquistare il suo nome, la sua spirituale dignità, il suo libro manda un messaggio forte perché invita a salvare la memoria e riesce a trasmetterla, con estremo pudore. La sua storia mi è parsa vicina a quella di Trieste, questa città che ha perduto la parte più cosmopolita e illuminista della sua identità, che ha trascurato quella sua "originalità d'affanno che agli occhi di Slataper la rendeva unica e bellissima. Seguendo l'esempio di Merima, forse potrà ritrovarla.
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