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Questo saggio di Emilio Gentile sul futurismo in politica rappresenta soltanto una breve panoramica sull'argomento. Partendo dalla nascita del Partito politico futurista, analizza i punti fermi che Marinetti e gli altri futuristi avevano stabilito. Continua quindi esaminando i rapporti fra i futuristi e Mussolini e cosa divideva il futurismo dal fascismo, fino all'abbandono di Marinetti e dei futuristi dalla vita politica.
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Questo nuovo libro di Emilio Gentile, che si collega agli studi dell'autore sull'Italia agli inizi del Novecento e sul fascismo come caso di "modernizzazione totalitaria", affronta uno degli aspetti più controversi (e sinora meno approfonditi) del futurismo italiano, cioè la sua dimensione politica. È un volume di facile e piacevole lettura, composto di tanti capitoli brevissimi, corredato con le riproduzioni di alcuni documenti (manifesti politici e prime pagine di riviste) e con un piccolo inserto iconografico a colori, nel quale compaiono opere pittoriche, copertine di libri e cartoline illustrate di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Sant'Elia, Severini. Lo si può definire un'opera di alta divulgazione, che potrà forse deludere un po' gli storici di professione per l'eccesso di sintesi e lo scarso approfondimento, ma che ricostruisce con efficacia il rapporto complesso e contraddittorio dei futuristi italiani con la politica, dagli esordi del movimento nel 1909 (il Manifesto di Marinetti comparve su "Le Figaro" il 20 febbraio) alle prime prese di posizione pubbliche, dal confronto con i principali esponenti dell'intellettualità nazionalistica (Corradini, Papini, Prezzolini) allo schieramento in favore della guerra di Libia, dalla travolgente esperienza nella Grande guerra all'idea di fondare un Partito politico futurista (maturata quando il conflitto era ancora in corso), dalla collaborazione con arditi e fascisti della prima ora alle relazioni, mai facili, con Mussolini, dalla partecipazione all'impresa di Fiume sino alla rottura con il fascismo nel 1920, quando conclude l'autore "il movimento politico futurista (
) cessò di esistere".
La chiave di lettura adottata da Gentile per interpretare queste vicende è sostanzialmente quella del rapporto tra il futurismo e il "nazionalismo modernista", cioè quell'intreccio di idee, di miti, di valori che nella prima parte del Novecento affascinò in Italia tanti giovani intellettuali, come sintesi tra i concetti di nazione (nel senso, va da sé, di un "primato" dell'Italia) e di modernità ("un'esplosione di energie umane e materiali, che non aveva precedenti nella storia dell'uomo"), cementati da un "senso tragico e attivistico dell'esistenza", alla cui base stava essenzialmente il bisogno di lottare con tutti i mezzi contro il vecchio mondo in declino. Un'ideologia di cui i futuristi, malgrado lo scarso seguito che li caratterizzò costantemente, riuscirono a rappresentare la versione forse più radicale ed estremizzata (agli antipodi, a ben vedere, di quella della maggior parte del nazionalismo italiano), sognando un movimento capace di stravolgere dalle fondamenta le regole correnti tanto nella sfera artistica, quanto in quella sociale e politica, tuffandosi quasi con voluttà nel vortice tumultuoso degli eventi, senza un preciso disegno politico, ma esaltando sempre le rotture più violente, le scelte più provocatorie, i proclami più incendiari (e qui c'è davvero di che restare ammirati dalla capacità di spararle grosse!).
In fondo sostiene Gentile fu proprio quella visione entusiastica e vitalistica della "modernità" a spingere inizialmente i futuristi verso il fascismo ("un legame né occasionale, né contingente"), ma anche a indurli quasi subito ad allontanarsene, delusi e frustrati, maturando atteggiamenti e scelte personali fortemente differenziati, che andavano dall'anarchismo individualistico e "arditofuturista" di Mario Carli (redattore a Fiume del periodico "La Testa di Ferro") all'avvio di un ripensamento critico complessivo, come nel caso di Bottai (cui sono dedicate alcune interessanti annotazioni), al rifluire nuovamente in una dimensione artistica e antipolitica di Marinetti, forse il più coerente si direbbe dalle argomentazioni dell'autore nell'elaborare un disincanto profondo verso l'idea stessa di "modernità".
D'altra parte la "rivoluzione" futurista, per quanto fosse un fenomeno d'élite, avanguardistico e minoritario, non mancò di influenzare profondamente la cultura politica del fascismo, che ne mutuò in parte il linguaggio e lo stile, li rielaborò e li integrò con altri apporti culturali (anche assai eterogenei tra loro), e li utilizzò poi costantemente come "una parte essenziale del suo modo di concepire e praticare la politica di massa", lasciando a molti dei futuristi in primis a Marinetti l'illusione di essere stati davvero i "costruttori dell'avvenire". Un paradosso, forse solo apparente, su cui vale però la pena di continuare a interrogarsi, per tentare di capire in tutta la sua contraddittorietà la tumultuosa, affascinante e spudorata parabola dei futuristi italiani, dalla "sfida alle stelle" all'inserimento in un regime autoritario di massa. Sarà il destino di tutti i nazionalismi, ancorché "moderni" e "futuristi"?
Marco Scavino
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