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Come sempre più frequentemente accade, si tratta di una operazione editoriale di dubbio gusto per sfruttare la notorietà di uno scrittore affermato. Racconto lungo, che sembra non terminato; ha il sapore dell'esperimento letterario.
Come una stanza scura, ammuffita in tanfo, sbiadita nei parati. Come una pensione sporca, grigia in ombra, di crepe vecchia. Come un lupanare unto, un gineceo maleodorante, un femmineo covo di cose e nomi. E' un luogo sfatto, rachitico, equivoco perchè muliebre "Notizie degli scavi" di Franco Lucentini. In esso la spesa, la branda ed il piatto. Il latte, lo stracchino e "le ova". La Gina, la Wanda e la Lea. In esso un'eccezione sola: un tonto stupido, minorato agro, in ridicolo ritardo. Detto a male "professore". Un garzone grande e grosso, uomo fatto in atto infante, anima irrancidita al servizio di carni malmesse ed assai devote al soldo. Ha cervello vuoto, un lessico da trenta parole trenta, una capacità di comprensione che è dislessia in cognizione, il professore. Ma quando guarda quanto guarda: "Osservavo il biglietto. Dopo guardavo che la sigaretta non s'era spenta bene, per terra, perchè era andata tra quelle righe che ci sono nei pavimenti dei tranve, che sono tutti righelli inchiodati per terra in modo che fa come un pavimento tutto scannellato. Guardavo tra questi righelli la sigaretta che ancora faceva fumo e anzi, dopo, si rivedeva un momento la brace, nello scuro in fondo alla scannellatura. Più avanti c'erano biglietti vecchi, un pezzo di carta d'una caramella, mozziconi di fiammiferi, altra roba che non si capiva che era". Indiscreto per strasbismo, il suo è un eterno guardare: scorge ed illumina, coglie e rigenera, plasma e significa. Disvela e rivela. Anche il proteiforme nulla che s'impettisce a nome, identità, certezza: "facevo questo sorriso in questo vetro, che dietro si vedeva la strada con quelli che passavano e poi più indietro dall'altra parte della strada, nello scuro del parco Tiburtino, s'incominciavano pure a vedere questi articoli dietro la rete della serranda abbassata, che parevano pure qui tutte tazze, bicchieri, altri pezzi che non si capiva, e in mezzo questi che pareva che eravamo noi che stavamo a guardare, ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era".
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scheda di De Federicis, L. L'Indice del 2000, n. 12
La vecchia passione di Domenico Scarpa per F & L è nota ai lettori dell'"Indice" da quando è uscito un suo pezzo che coniava la formula dei "libri comico-teologici" e ne discuteva le scelte di stile, o meglio lo stile come scelta intellettuale. Era il gennaio 1993. Sulla celebre coppia, politicamente scorretta e vistosamente mercenaria, duravano i sospetti: anche sul romanzo più ambizioso, A che punto è la notte, un raro esempio di romanzo giallo e gnostico, oggi divenuto un libro di culto, un surreale e realistico promemoria della Torino degli ingegneri Fiat. Oggi però, compiendo Lucentini ottant'anni, capita talvolta che la coppia venga disunita. L'editore Avagliano, in un libriccino impreziosito dai disegni di Franco Gentilini, ristampa l'ultimo (1964) dei tre racconti giovanili, i soli che Lucentini abbia firmato con il solo suo nome. Racconto breve. E Scarpa ne raddoppia lo spessore impegnandosi in un affettuoso esercizio di saggismo narrativo, che incomincia con l'umile impresa del riassunto e poi s'allarga alla linea filosofale di Lucentini, percepibile (forse) pur nel lavoro di coppia, e declina infine nelle memorie personali. Dalla storia di vita di un poverino narrata "nella sua lingua di trenta parole" - tuttofare in una pensione di cattive signorine finito a caso negli scavi di Villa Adriana -, da un contenuto dunque di bassa quotidianità romana trasvoliamo a riflettere sullo statuto delle cose e delle parole, del tempo, dell'universo. La lettura di Scarpa punta tuttavia alla concretezza, al "genio del concreto" che assiste Lucentini (e la coppia) nelle spericolate divagazioni. E Lucentini, oggi, cosa risponde a Scarpa che vorrebbe andare alle radici della disperata fraternità di quei primi racconti? All'epoca (dice citando Valery) era in preda davvero alla disperazione di ritrovarsi sui trent'anni "senza essere né ricco né celebre". Fedele al concreto e alla propria cifra ironica. Fedele al proprio enigma.
Lidia De Federicis
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