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MAYER, HANS, Walter Benjamin. Congetture su un contemporaneo, Garzanti, 1993
BENJAMIN, WALTER, Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, 1993
recensione di Liber Schiavoni, G., L'Indice 1993, n.10
Due testi pubblicati in Italia a ridosso dell'estate arricchiscono di nuove tessere il già prezioso mosaico di provocazioni culturali intessutosi negli ultimi decenni intorno alla figura di Walter Benjamin e al suo controverso retaggio spirituale. Il primo è costituito da "Ombre corte", quinto volume dell'edizione cronologica delle "Opere" di Benjamin presso Einaudi, proceduta finora con una certa discontinuità e interrottasi nel 1985. Il secondo è un agile volume dovuto a un provocatorio germanista come Hans Mayer, scomodo testimone di settant'anni di vita culturale non soltanto tedesca, la cui presenza appare ormai indispensabile in ogni celebrazione o convegno che si rispetti, tanto che in Germania è stata addirittura coniata a suo riguardo una frase scherzosa: 'Keine Feier - ohne Hans Mayer', ossia "Nessuna celebrazione senza Hans Mayer".
Si tratta di una sorta di profilo critico-biografico al quale l'editore italiano ha voluto dare come sottotitolo "Congetture su un contemporaneo" (più sfumato e sicuramente più denso della formulazione originale tedesca, che suona "Der Zeitgenosse Walter Benjamin*, "Il contemporaneo W.B."), scaturito dalla rielaborazione di un discorso commemorativo tenuto da Mayer il 16 gennaio 1992, per il centenario della nascita di Benjamin, presso l'Università di Lipsia, la tempestosa città dalla quale l'oratore si era allontanato per dissenso ideologico, dopo averci lavorato al franco di un altro pensatore in odore di eterodossia come Ernst Bloch. Siamo di fronte a un significativo segnale di ripresa di interesse verso un autore mai banale, spietato indagatore delle ambiguità del Moderno e diffidente perlustratore delle fallaci fiducie in una storia tutta proiettata in avanti. (Del resto, ai due testi suddetti verranno entro breve ad aggiungersi anche il volume degli atti del convegno su Benjamin svoltosi al Goethe-Institut di Roma nel dicembre 1991 e la raccolta di "conferenze radiofoniche" benjaminiane relative agli anni 1929-32, intitolata "L'illuminismo per i ragazzi", annunciata per l'autunno dalla casa editrice Il Melangolo).
Peraltro, un moto di malinconia deve accompagnare l'uscita di questi due scritti, dato il clima di ristagno culturale nel quale appaiono pressoché liquidati e come imbalsamati anche gli impulsi più vitali di altri compagni di via di Benjamin quali ad esempio Brecht o i francofortesi Adorno e Horkheimer, sebbene i nuclei del loro pensiero siano distillati in prestigiose e impeccabili edizioni critico-filologiche: si vorrebbe infatti che i due testi in questione non contribuissero a quella sorta di damnatio memoriae nei confronti dello scrittore berlinese favorita di fatto, paradossalmente, proprio dalla pubblicazione dell'edizione critica complessiva degli scritti benjaminiani presso l'editore Suhrkamp di Francoforte (1972-87) e dalla serie di commemorazioni e convegni sull"'attualità" di Benjamin fioriti un po' ovunque (da Roma a Gerusalemme, da Berlino a Francoforte, da Osnabruck a Madrid) in occasione della ricorrenza del cinquantenario della sua morte avvenuta il 26 settembre 1940, e del centenario della sua nascita avvenuta il 15 luglio 1892.
L'antologia einaudiana ha tutto il sapore di un laboratorio teso a registrare le tensioni e le impennate della smisurata curiositas intellettuale di Benjamin nel segmento ristretto del biennio 1927-28, in cui il filosofo tra l'altro si lega alla regista russa Asja Lacis, approfondisce l'amicizia con Hofmannsthal e con Bloch (con il quale si avventura persino nelle regioni impervie dell'hascisch), visita San Gimignano e Marsiglia, medita di dedicarsi allo studio dell'ebraico e soprattutto - senza smentirsi - scrive su tutto e su tutti, senza prevenzioni di sorta: sulla propria vita, su abbecedari e giocattoli, sulle marionette e sul cibo, sul dialetto e sulla lingua, su grandi scrittori del passato (Goethe e Dostoevskij) e del presente (Gide, Kraus, Julien Green, i surrealisti...), sui romanzi d'appendice e così via. È, insomma, una sorta di zibaldone zeppo di emozioni e di sorprese, anche se alcune prose di memoria e alcuni saggi erano già noti al pubblico italiano grazie alle raccolte einaudiane"Avanguardia e rivoluzione" (1973), "Immagini di città" (1971), "Sull'hascisch" (1975) e "Critiche e recensioni" (1979).
Dal canto suo, il libro di Mayer, che eccelle tra i tanti contributi su Benjamin pullulati in memoriam, si configura come un insieme di flash che ripercorrono all'insegna dei motivi della sconfitta e della contraddizione le principali tappe della produzlone benjaminiana: da quell"'infanzia berlinese intorno al 1900" che sarebbe stata immortalata in un celebre libro di memorie dall'identico titolo, al fallito tentativo d'inserimento nel mondo accademico, all'esilio parigino e al progetto del grande lavoro incompiuto su Baudelaire e su Parigi; e infine al suicidio alle porte della Spagna. D'altronde è lo stesso Benjamin a tematizzare - in una delle folgorazioni presenti in "Ombre corte", lo scritto che dà il titolo all'antologia einaudiana - l'ambivalenza della sconfitta e la consapevolezza del margine di "invincibilità" che essa maieuticamente parrebbe conferire agli individui, nella durezza e nel dolore della vita, dunque nella tensione per superare anche lo scacco e la sconfitta: "'Dove si riconosce la propria forza'. Nelle sconfitte... Chiusi dentro un carro armato diventiamo sordi e inaccessibili, cadiamo in tutti i fossati attraversiamo tutti gli ostacoli, solleviamo fango e deturpiamo la terra. Ma solo ove siamo così insozzati siamo invincibili".
L'immagine di Benjamin che emerge è quella di un "contemporaneo" sul quale, a giudizio di Hans Mayer, grava la "contraddizione" esistente - da un lato - tra la fama universale postuma, la scrupolosa edizione di tutta la sua eredità spirituale e l'investigazione minuziosa di ogni circostanza della vita e - dall'altro - I'esistenza di un uomo votato al fallimento, costantemente respinto, forse sempre segretamente attratto dalla morte e soprattutto sempre preda dell'esitazione, dell'incompiutezza già tanto cara ai romantici, e dell'indecisione: quella tremenda (e forse salvifica e produttiva) indecisione dell'ebreo costretto a muoversi - nella sua marginalità - fra le molte maglie di una rete in cui egli non deve lasciar impigliare la propria autonomia intellettuale, restando conteso tra i vari orizzonti che gli si prospettano: la Mosca della rivoluzione (verso cui lo attraggono le frequentazioni con Brecht e con la regista lettone Asja Lacis conosciuta a Capri nel 1924, forse un'"agente" assegnatagli dai sovietici per guadagnarlo alla loro causa), la Gerusalemme verso cui lo indirizza l'amico Gershom Scholem, la Dialettica negativa di Adorno, il "Principio Speranza" verso cui si sta incamminando - forse con soverchio ottimismo - l'amico filosofo Ernst Bloch.
È proprio Mayer a offrirci invece illuminanti e inedite indicazioni sulla pregnanza del concetto di "speranza nel passato" (Szondi) e addirittura di non-speranza per Benjamin, che nel 1940 avrebbe infine fatto assurgere l'agghiacciante "Angelus Novus" di un noto acquarello di Klee ad allegoria della storia che, inebriandosi del Progresso, nel suo incedere finisce in realtà per accumulare soltanto macerie e catastrofi.
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