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L’arsura di verità divora il tempo, le giornate, il pensiero. Dove trovare la verità è un problema, un assillo costante che solo una salvifica ironia può tentare di tenere a bada.E i velleitari messaggi al mondo sono sigillati con un ‘pisciamoci sopra’, l’atto simbolico e reale al contempo di svuotare la vescica insostenibilmente gonfia.Monologo in cerca di interlocutori che è tentativo (riuscito) di darsi voce, esternare il malessere di vivere. Lo scenario è la provincia o la piccola città, quella che si porta addosso come un cattivo carattere o un rimasuglio appiccicoso, “Rinnegare se stesso o storpiare i dialetti, non basta a far nascere un nuovo individuo; c’è qualcosa nel D.N.A. che ti salda all’origine”, dice l’io narrante, da che il viaggio è l’esodo che sa “di fuga e odore di sterco”.Le immagini sono forti, lo stile è graffiante, atto a spellare e fare saltare la vernice di tanto perbenismo ipocrita. La sicilianità è colta come bagaglio mistificatorio e ingombrante - “Dovevamo restare a contemplare il silenzio della notte, offeso dalle cazzate dell’adolescenza e scimmiottare i perduti della piazza con le loro mani incrociate dietro la schiena, ad inscenare l’oratoria della cultura.“Il pregio di questo autore è, a mio avviso, l’anti- sicilianità, l’anti-elegia, il timbro anarchico che da tutto dissente, la dissacrazione della condizione d’essere siciliani come pregio, peculiarità eccellente dai più spacciata come il migliore dei mondi possibili. Buscemi conosce e pratica l’infedeltà ai dettami triti dell’isola in cui vive, fedele solo alla lingua e al dialetto, quest’ultimo in lacerti, frasi, locuzioni o una parola appena come intermezzo da coloritura salace per rafforzare, fare risaltare il rifiuto, il disgusto e la disillusione.Infine, una domanda necessaria che “Nasce dal di dentro, giorno dopo giorno. (...). Guardi gli altri intorno a te, assaporando le differenze che ti allontanano dal branco e te ne fotti delle etichette da dietrologia che alternativamente alla faziosità, t’incollano addosso”.
Ossidiana è un'opera di difficile collocazione nell'ambito dei consueti generi letterari. Attraverso una larvata impostazione di romanzo (ci sono, infatti, un protagonista, un ambiente, una storia, un contenuto) la prosa di Buscemi acquista una duplice funzione: quella del lungo monologo che prende i toni dell'invettiva e quella prettamente estetica della poesia. Al centro del monologo è un personaggio che molto somiglia all'autore stesso e che, nei panni di un uomo di potere (un politico che, come si dice, ha "le mani in pasta"), ci svela la perversione morale dell'uomo che decide i destini della città. Scorre quindi davanti al lettore un continuo fiume di sensazioni, di ricordi, di riflessioni, di argomentazioni che mettono a nudo la natura umana, incline all'intrallazzo, alla delusione, al bieco profitto, al male. Quest'analisi spietata passa da una visione esterna (la città, gli amici, gli elettori, il mondo nel suo insieme) a una cruda introspezione fino a scoprire la miseria del proprio animo e della propria natura. Ha il tono di un pamphlet amaro ed esasperato, cinico e duro; duro come quell'ossidiana, la nera pietra che nella preistoria serviva per la costruzione degli utensili da taglio, che qui diventa pietra di paragone e metafora stessa del romanzo-monologo; così come la pomice, altra pietra vulcanica, diventa l'elemento morbido, fangoso e putrido, della disperazione umana. La scrittura poi, ha una forte sostenutezza formale, uno stile che poggia su continue architetture metaforiche, su arditi ed inusitati paragoni, su immagini spesso criptiche perché affidate ad accostamenti e a traslati di tipo fantastico, surreale ed onirico. La lingua ha frequenti contaminazioni col dialetto e con altri codici di tipo gergale e tutto, contenuto lingua stile, contribuisce a farne un'opera originale ed inusitata.
duro e diretto come ci si aspetta sin dalle prime pagine. un pugno allo stomaco degli ipocriti. a quando il prossimo ?
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