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Un libro affascinante; il "come diventai giornalista" é poco più di un pretesto; in realtà é il racconto della formazione di un giovane ebreo modenese nato nel 1926: in tempo per vivere le difficoltà delle leggi razziali, della fuga in Argentina, lo strazio della Shoà, l'impegno come ebreo, che lo porta ad arruolarsi nell'esercito israeliano e fare la guerra pur non essendo sionista. Ma soprattutto, una riflessione sull'essere ebreo non come fede religiosa, ma come identità personale. E quì si innesta una critica: si manifesta quella caratteristica degli ebrei di sentirsi "primi della classe", il rimandare quanto di meglio sono in grado di fare, alla loro origine, alla storia della loro famiglia e di tutto un popolo. Che li rende meno simpatici, come sempre sono poco simpatici i primi della classe che sottolineano troppo insistentemente la superiorità duramente conquistata con la serietà, l'impegno, la dedizione. I vecchi, tutti i vecchi, che giudicano di aver vissuto una vita interessante sono fin troppo portati a darne conto anche a chi non é troppo interessato; possono apparire, alla lunga, dei rompiscatole. Un primo della classe, ebreo, che effettivamente si è conquistato una vita piena ed interessante, rischiava di scrivere un'insopportabile autocelebrazione; l'ha scritta, ma in modo interessante. E' proprio un grande giornalista!
Recensioni
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Nei mesi estivi, quando il libro iniziava a circolare, si è aperta in Italia una discussione sul 150° anniversario dell'Unità. Fin dal suo titolo il libro lascia intendere di avere le carte in regola per essere utilmente adoperato da chi non si rassegna all'idea che il tema debba essere relegato fra le chiacchiere da spiaggia in vista delle manifestazioni del 2011. Un paese non basta ha come punto di forza da un lato la memoria risorgimentale degli antenati ebrei modenesi, che "cooperarono" (il verbo è di Croce) al formarsi di una coscienza nazionale italiana; dall'altro lato è la testimonianza della prima guerra d'indipendenza, che nel 1948 accompagnò il sorgere dello Stato d'Israele e vide fra i suoi combattenti, nel deserto del Negev, un giovanissimo Arrigo Levi. Dal taccuino di quei giorni lontani sono riprodotti nell'autobiografia frammenti originali, che costituiscono uno dei punti letterariamente più alti del testo.
Per altri snodi, riferibili a una storia più vicina a noi, penso soprattutto al periodo travagliato della direzione della "Stampa", e del modo come essa ebbe a concludersi, il libro è invece singolarmente laconico. Qui il filo conduttore è dato dalla storia dell'idea di nazione e dalla memoria che essa può lasciare di sé: mezzo secolo, nel caso di Israele; un secolo e mezzo, nel caso dell'Unità d'Italia. Arrigo Levi, con intelligenza e lucidità, ricostruisce la sua formazione culturale, legando la sua partenza per Israele nel 1948 alla radice ottocentesca e romantica del Risorgimento modenese, qui simbolicamente rappresentata dal suo concittadino Angelo Usiglio, il "piccolo dolce Angelo", come lo chiamava Mazzini.
Leggendo in estate i giornali, molti avranno ricavato la sensazione che la discussione, concentrandosi sulla mancanza di progetti credibili, o sulla lottizzazione del comitato di esperti, abbia eluso il problema che Arrigo Levi pone invece al centro della sua vicenda personale. La rimozione del Risorgimento, quello italiano e quello del primo sionismo, è invece un (doppio) problema antico. Accanirsi contro chi, come la Lega o i commentatori faziosi della tragedia mediorientale, rinnegano il Risorgimento, o paragonano il sionismo a una forma di razzismo, significa scambiare la causa con l'effetto.
Nel secondo dopoguerra la memoria del Risorgimento è stata rimossa, pensando, con buoni motivi (ma non sempre), che il fascismo l'avesse macchiata. Così, è calato il silenzio sulle origini socialiste dello Stato d'Israele (documentabili dai primi pezzi giornalistici che Levi inviò alla "Critica Sociale" di Ugo Guido Mondolfo nel 1948-49). Le forze politiche dominanti dopo il 1945 erano eterodirette: il Pci guardava a Mosca, la Dc al Vaticano, la terza forza, cui Levi si ricollega, è rimasta schiacciata in mezzo. Non si può dire che la biografia di Cavour scritta da Rosario Romeo abbia avuto un successo comparabile con altri classici della storiografia, marxista o cattolica. E la politica estera della Destra storica ricostruita da Federico Chabod, così come il binomio sionismo-mazzinianesimo negli anni degli ondeggiamenti mediorientali andreottiani e delle incursioni libiche in direzione della "Stampa" erano due momenti storici guardati con pari diffidenza, cautamente evitati. Dentro l'ebraismo le cose non andavano meglio: il dibattito, per ovvie e comprensibilissime ragioni, era telecomandato dalle guerre che Israele ha dovuto combattere, la prima delle quali con l'apporto di giovani italiani come Levi, non immemori del loro essere nipoti del Risorgimento.
Sebbene il libro contenga pagine serene e oneste sulla scia di sangue nel "triangolo della morte", l'esperienza della lotta partigiana rimane un po' nell'ombra nelle memorie di Levi, per conseguenza del suo forzato esilio, durante il secondo conflitto mondiale, in America Latina. E così l'analisi degli albori del fascismo, a Modena e dentro la comunità, non tiene conto del fatto che il regime di Mussolini spezzò fra gli ebrei italiani il nesso fra nazione e libertà che il Risorgimento aveva istituito. Dentro lo stesso ramo materno dei Donati, non possiamo infatti sottovalutare il prologo intra moenia della futura guerra civile fra italiani. Fra 1921 e 1922 la violenza fascista a Modena aveva reso altissimo il livello della tensione: scontri a fuoco, assalti a Camere del lavoro, sedi del partito socialista. Contro il deputato socialista ebreo Pio Donati, "lo zio Pio", si scaricarono desideri di vendetta. L'assalto al suo studio di avvocato, di cui si parla a lungo nel libro, fu fermato dalle guardie che presidiavano la casa. Nella successiva sparatoria, su cui si sorvola, un altro ebreo, che apparteneva agli assalitori, Duilio Sinigaglia, ventiquattro anni, morì insieme ad altri sette giovani. Tra 1921 e 1938, la memoria ebraica a Modena al pari di tutta quanta la città è lacerata dalla stratificazione di quella ferita infracomunitaria. Pio Donati incarnava la memoria dell'opposizione, ma ogni anno la tomba di Sinigaglia era meta di pellegrinaggi dell'altra metà della comunità cittadina. Con inevitabili paradossi, dopo il 1938 e ancora nel 1943.
Queste memorie sono oggi rivisitate con giusto distacco. L'eroe eponimo è l'arcitrisavolo Nathan Nathan, da cui discende, per letterale traduzione dall'ebraico, Donato Donati, che importò nel ducato un cereale utile per sfamare i superstiti alla peste manzoniana. Levi si serve di lui come una variante ducale del Nathan di Lessing, per volare alto sopra il fascismo modenese e attingere alla saggezza di Giobbe (1,21), che sul verbo "nathan" ("ha dato") ha coniato un insegnamento fondamentale: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto".
All'aura sapienziale che tende a curare le ferite lontane, si sottrae soltanto il tema politico della nazione: i problemi del neonato Stato d'Israele non sono diversi da quelli che dovettero affrontare i primi governi italiani dopo il 1861. Il ruolo che gli ebrei hanno avuto nel costruire lo stato italiano è fondamentale, il guaio è che oggi nessuno se ne ricorda. È così potuto accadere che la tesi di Arnaldo Momigliano sulla "nazionalizzazione parallela" di ebrei e italiani, che alcuni, come chi scrive, si ostina a considerare convincente, sia caduta rapidamente in disgrazia. Chi si è impegnato a demolire quella tesi, oggi, di fronte alla "disgregazione parallela" che colpisce la società italiana e insieme con essa molte comunità della penisola, leggendo le prime pagine di questo libro, farebbe bene a ripensarci. Come gli stessi modenesi rischiano di dimenticare di aver combattuto insieme ai napoletani per diventare italiani, così tutti gli ebrei italiani dovrebbero ritornare a riflettere sul loro essere diventati italiani insieme ai napoletani e ai modenesi. Per chi a quella tesi rimane affezionato, un libro come questo è motivo di conforto per cercare di riprendere il cammino interrotto.
Alberto Cavaglion
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