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Anno edizione: 2001
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KEYSERLING, EDUARD VON, Principesse, Adelphi, 1988
KEYSERLING, EDUARD VON, Onde, SugarCo, 1988
KEYSERLING, EDUARD VON, Giorni d'afa, SugarCo, 1988
recensione di Ghedini, M., L'Indice 1989, n. 1
Stiamo assistendo al repechage di uno scrittore "minore" da parte di due editori che non vogliono rivelare i loro piani per il futuro, rischiando degli inutili doppioni. All'inizio del secolo Keyserling ebbe fama tale da essere pubblicato su "Die Neue Rundschau'' accanto a Th. Mann, Wilde, Hoffmansthal, Schnitzler e altri. Dopo la sua morte nel 1918 venne progressivamente dimenticato, finché il suo editore, S. Fischer, pubblicò nel 1973 un'ampia scelta in un volume, e dal 1982 quasi tutta la sua narrativa nei tascabili, mentre in Italia uscirono solo due romanzi negli anni '30.
Keyserling nacque nel 1855 in Lettonia da un'illustre famiglia che aveva avuto rapporti di amicizia con Bach, Federico II e Kant. Dopo varie vicende si stabili a Monaco, dove prese parte alla bohème del distretto di Schwabing e scrisse per il teatro senza grandi consensi. Il successo arrivò con i "racconti del castello", come li chiama, dal sottotitolo di uno di essi, A. Azzone Zweifel nella sua pregevole monografia ("Eduard von Keyserling. I racconti del castello", Liviana Editrice, Padova 1983), seguendo l'umore che non faceva distinzioni strutturali fra novella, romanzo e racconto. Il castello, che pure è il luogo della bellezza, dell'eleganza, della serenità senza scosse, è visto dai giovani protagonisti come prigione e costrizione: "on étouffe" dice Mademoiselle Laure in "Principesse", e balla da sola nella sua stanza come Ellita in "Giorni d'afa". Al castello si contrappone sempre il fuori, desiderabile anche se lievemente minaccioso perché sconosciuto, soprattutto per le protagoniste femminili. In "Onde" invece la prospettiva si rovescia: la fuga è avvenuta e la vita si svolge fuori, ma con rimpianti per il castello, principalmente di ordine estetico. Keyserling era di una bruttezza notevole, come documenta l'intenso ritratto che gli fece Lovis Corinth; forse per contrasto, la bellezza è uno degli elementi fondamentali nella sua opera, "schon" e "hubsch" fra gli aggettivi più usati. La bellezza nelle persone è vista quasi come un peso: "La bellezza è una continua indiscrezione", viene detto in un altro racconto. E in "Onde" a proposito della protagonista "...era come se essere così bella le procurasse una stanchezza terribile (...) essere così bella è una terribile responsabilità". Gli oggetti, i vestiti, le stanze e gli arredi del castello non sono descritti minuziosamente, si ha soprattutto un'idea dell'atmosfera che vi regna. Altro è il rapporto con la natura, sia la natura addomesticata del giardino, del parco e dei campi, sia la natura libera dei boschi, degli stagni, dei laghi e del mare con i loro animali. La sensazione che rimane dopo la lettura è di estate assolata, di tende chiare abbassate per non disturbare il riposo, di meriggi afosi in cui nessuno, tranne i giovani protagonisti di "Giorni d'afa" e "Principesse", si sognerebbe di lasciare la penombra protettiva del castello per andare incontro all'avventura. Solo "Dumala" e "Case crepuscolari" sono immersi nella neve e nel freddo, ambiente più consono a una regione così nordica: siamo alla latitudine di Ibsen e di Strindberg, eppure i racconti di Keyserling, con i loro profumi, le voci della natura, i colori, le luci e le ombre, danno una sensazione di lievità, di incanto e di grazia tipicamente impressionisti. Tuttavia i personaggi più vivi, quelli non rassegnati, sono soffocati da un senso di inadeguatezza, dall'attesa spasmodica di un avvenimento liberatorio (quasi sempre di connotazione erotica), dal fallimento quando questo non si verifica o si rivela negativo, come l'evasione dal castello del conte Streith e della principessina Marie in "Principesse". In effetti, i racconti di Keyserling sono profondamente pessimisti e hanno quasi tutti un finale tragico. Questa visione ne pativa può avere origine: innanzitutto Keyserling vedeva con chiarezza l'assoluta inutilità della sua classe - che non aveva saputo o potuto adeguarsi ai mutamenti storici e sociali come aveva fatto l'aristocrazia prussiana - e inoltre trascorse gli ultimi dieci anni della sua vita immobilizzato, cieco e in solitudine, continuando a scrivere e a esercitare la sua ironia nei confronti dei suoi personaggi. Questi sono arguti, o ridicolmente sciocchi e sentenziosi; comunque l'autore, descritto dai contemporanei, compreso Th. Mann nel suo necrologio un po' di maniera, come persona estremamente corretta e dignitosa, sta indubbiamente dalla parte dei giovani che si ribellano - o vorrebbero ribellarsi - al rigido codice della loro classe (v. l'insopportabile "tenue" di cui tanto si parla in "Giorni d'afa"). Per quanto riguarda il suo linguaggio, è apparentemente semplice, con un lessico concreto e una sintassi paratattica che rendono i numerosi dialoghi immediati e le descrizioni assai scorrevoli. Mi sembra che "Principesse" sia il migliore dei tre racconti, il più compiuto e articolato, e che anche la traduzione sia la migliore, mentre "Onde" è corredato da un'interessante prefazione.
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