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Un lembo di terra che si protende sul mare, che circonda l’ultimo tratto del Tevere nella sua confluenza nel Tirreno. Una terra grigia, desolata, di nessuno dove ci sono carcasse di un vecchio parco giochi, altalene incrostate. La regista racconta una comunità che rappresenta, a suo dire, l’ultima borgata autocostruita di Roma. La popolazione che abita un agglomerato urbano spontaneo e disordinato, cresciuto dagli anni Sessanta su territorio demaniale a seguito del trasferimento di molte famiglie disagiate dopo l’impennata dei costi immobiliari nella capitale. Gli abitanti chiedevano da tempo alle istituzioni di essere regolarizzati, ma nel belpaese, dove gli abusi edilizi vengono sempre annegati in sanatorie, questo non è stato concesso. I poveri abitanti di Punta Sacra davano in effetti fastidio alla speculazione del progettato porto turistico di Roma, su cui poi è calata la scure della magistratura. E ora i rimanenti rimangono in attesa del proprio destino abitativo, manifestando in modo pacifico e festoso, contro demolizioni e nuovi sgomberi. Francesca Mazzoleni mantiene uno sguardo delicatissimo su quelle persone, le osserva nella loro vita semplice, riporta le loro chiacchierate e i loro discorsi, di vita, spensierati, i flirt dei ragazzi. Dove trapela la storia di quella comunità, la loro rivendicazione a esistere. Tutto è molto spontaneo, segno che la regista ha instaurato un’empatia con quella gente. La macchina da presa è un punto di vista interno alla comunità, in ciò accompagnata dalle tante riprese aeree, da droni, che danno il senso di quella geografia di confine, di incrocio di terra, mare e fiume, dove i flutti si infrangono sulla costa. In una immagine dall’alto, si vede una parte di mare agitato separata da un molo dall’acqua invece piatta di un porticciolo turistico. Un’immagine che è la metafora perfetta dell’esistenza di quella comunità dissestata, che una barriera divide dall’ordine e dalla pulizia dei luoghi di svago di una borghesia opulenta.
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