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Profano lo è davvero, questo breve trascorrere di pagine; e di una profanità più implicita e assoluta di quanto trapeli dalle rare parole tematiche, disseminate nel testo quasi a ribadire la pertinenza di un titolo altrimenti criptico. Non che risulti esiliata ogni apparizione del sacro, visto che Sileno, Eco e Narciso si riaffacciano pur sempre, adibiti a occasionali similitudini. Il vero dio sbandito e innominato di cui si officia l’assenza è Crono, il gran divoratore. Con le figure del Tempo, le sue ironie e le sue crudezze, Camerana si è provato per ben cinque romanzi. Adesso sembra concedersi una pausa sabbatica dalla rappresentazione di un’equivoca modernità – quella della sua città, Torino –, che ha voluto scrutare non nel recto dell’industrialismo trionfante e del decoro, dello spirito civile e della santocchieria operosa, ma nel verso un po’ baudelairiano della fantasmagoria e della visionarietà. Svanita la flânerie urbana del 1920 (L’enigma del cavalier Agnelli, 1985), sepolti con un personale e non dissimulato tributo di dolore i wertherismi di inizio secolo (La notte dell’Arciduca, 1988), archiviati i casi giudiziari tra tardo Ottocento e Italia del boom (Contro la mia volontà, 1993; I passatempi del Professore, 1990), trasferiti in distopia postindustriale i prevedibili cascami dell’oggi (Il Centenario, 1997), è la volta di una contemporaneità che stinge nell’intemporale, povera di luoghi e avara di segni. Contribuisce all’effetto spaesante anche l’onomastica crepuscolare e spesso diminutiva, i Cesarino, Severino, Beniamino, Niccolino, Adegrino, le Giancarline, Bernardine e Cesarine – appena bilanciati da Mussis, Alda e Stanislao –, che popolano con allegorica tenuità i Racconti profani. Dieci esercizi, ciascuno dei quali rinuncia alla pregnanza compendiosa di un titolo diverso dal proprio incipit. Dieci "lievi" prose di pensiero "in situazione", suggerisce lo stesso autore nella bandella, invocando Musil e Canetti. Una dichiarazione di poetica a cui i primi nove racconti aderiscono innanzi tutto con diligenza grammaticale: sono perlopiù al presente, il tempo commentativo e veritativo che la narrazione preferisce utilizzare parcamente. Incurante della celebre sentenza di Robert Petsch ("Un racconto tenuto tutto al presente è come una lettera con tutte le parole sottolineate"), Camerana non ignora tuttavia le insidie di un tempo sovraesposto, anzi destina a morte un personaggio che si lascia esistere nell’immobilità del qui e ora, preda di un delirio di ostensione che gli vieta anche il più elementare insegretimento costituito dai ricordi: "Subentra uno stile abbagliante e sincopato di stare al mondo. Il passare delle ore si identifica con l’esposizione alla luce del tempo reale" (Da qualche giorno la Bernardina). È solo uno degli "stili" che appartengono alla profanazione, declinata fino alla parodia. Profani, e profananti, appaiono sia il "rattrappirsi" dei figli in individualità "irrigidite" agli occhi di una madre per cui "la ‘sacralità’ dell’esistenza non va riferita al suo scorrere, ma si concentra e si limita al momento in cui essa si manifesta" (Se uno entra nella stanza), sia l’intrusività di un salame nel codice aziendale (L’Ingegnere è un ingegnere); sia l’adesione di un’orfana alla movenze perdute della vita dei genitori (Ora che i genitori di Mussis G.) o le ustioni del risentimento in chi è "convinto di subire un torto non riparato", fino a quando non vi riconosce "l’effetto della potenza sorgivamente ostile (…) insediata nel profondo del suo cuore" (Per molti forse troppi anni), sia le "drammaturgie amorose" nelle loro disfide giovanili, convenzioni adulterine e "soffuse complicità (…) senza difesa" (Sono soltanto mezzi baci, Il Cesarino benché marito infedele, Alla fine della giornata), sia la "densità del non detto" in uno spione quintessenziato (Gaetano detto Tannuzzo). Recuperando i tempi verbali del passato e qualche brano di contesto, l’ultimo, lungo racconto, Ti spiace?, finisce per assimilare i precedenti ad apologhetti scenici, e in parte restituisce al lettore le abilità del Camerana ritrattista di psicologie storiche. Se anche non citasse a malapena, per dovere di etichetta epocale, Autonomia operaia, la frusta panoplia di scialli, zoccoli e chiome afrocubane, l’ideologia outrée dell’artigianato povero e i padiglioni bulgari dei festival, a restituire il clima degli anni settanta – "profano" non a caso – basterebbe il fronteggiarsi di due anime riverse, Alda dalla svagata e sentenziosa poliandria e Beniamino, che, non "acclimatato alla banalità della trasgressione", "continuava a non vedere oltre i totem riconosciuti, alla cui deferenza restava irrimediabilmente legato", mentre proprio "la sua maniera primitiva e raffinata di sentire e di agire era l’infrazione che restava nascosta". Il loro ludo inconcluso si sfibra tra negozi, ristoranti, viali e stazioni, e trova pace quando in Aldo prende forma l’aspirazione a un modello femminile "più impenetrabile", "più adatto a integrarsi con chi ancora stentava a misurarsi con la relatività del mondo". Qui Camerana denuncia il vero debito con Musil; meno nel registro di una scrittura che alterna l’impersonalità – è stato notato – da école du regard a grumi di riflessione in tensione sintattica.
recensioni di Moro, C. L'Indice del 1999, n. 11
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