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In questo libro è quasi ovunque abbastanza facile scindere la ricerca dal credo ideologico/religioso dell'autore. Il che dovrebbe accadere sempre e naturalmente in ogni trattazione storica e critica. Quinzio ha ben chiaro che nel Novecento la teologia si è fatta scienza, e conseguentemente che è quello scientifico il metodo con cui essa suole (deve?) essere discussa ed esposta. Il suo pensiero circa questa evoluzione o involuzione è espresso ma non imposto. La filosofia della religione è un territorio in cui entrano in campo di volta in volta sostanze di ricerca molto diverse, basate su diversi tipi di fede (talora anche l'ateo ne ha una). Alcuni teologi ritengono che l'unico destinatario di un saggio sulla religione sia colui che di religione vive; per altri invece la religione si deve insegnare esclusivamente con un fine protrettico, posti indiscussi i dogmi della dottrina ufficiale. L'indagine di Quinzio si svolge all'interno di una cultura, l'ebraismo, che prima di (talvolta al posto di) essere un credo è una forma mentis, si potrebbe dire una razza di pensiero, distinguibile dalle altre ma non isolata, anzi fusa con le altre al massimo grado proprio nell'era moderna. Leggendo il libro non si avverte giudicato il proprio cristianesimo o il proprio agnosticismo. Si viene chiamati all'unica attività che dovrebbe sottendere a ogni forma di giudizio: la conoscenza. Faccio fatica a riconoscermi soltanto nelle primissime righe della prefazione, forse per ragioni di una eccessiva stringatezza del discorso. Un'opera necessaria.
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