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E' proprio un "ragionevole dubbio": questo film è bello o no!? Basta poco per esprimere una risposta. Dopo decenni di legal thriller che hanno invaso piccoli e grandi schermi, è sempre più arduo affrontare il genere e aggirarne i cliché: specie senza essere sorretti da una sceneggiatura di sostanza, forte di colpi di scena credibili, e con l'aggravante di una colonna sonora che enfatizza con un crescendo insistito ogni sequenza, spesso a prescindere dal contesto filmico. È facile intuire come procederà la parabola dell'avvocato che non perde una causa e che ha sviluppato una corazza di ego-cinismo, costretto a sprofondare e a vivere il peggiore dei contrappassi per poter ritrovare se stesso. Un percorso prevedibile, destinato a essere risollevato dall'inventiva di alcune sequenze o da qualche exploit interpretativo, elementi che purtroppo latitano. È il volto stesso degli attori coinvolti a denunciare una sensazione che pare di sconforto generale: Samuel Jackson (non è bella la voce del suo doppiatore; io lo vorrei sempre tradotto da Luca Ward) non è nuovo a ruoli su commissione, ma mai come in Un ragionevole dubbio sembra ingabbiato in un personaggio bidimensionale, incapace (o semplicemente privo di volontà e stimolo) di infilare uno dei suoi guizzi, di donare il colore che manca a un'opera esangue. La breve durata, infine, evidentemente costretta da ragioni extradiegetiche, porta a un'accelerazione forzata e innaturale del ritmo, verso l'ovvia risoluzione. Quel che partiva con un ragionevole dubbio si è trasformato in una desolante certezza.
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