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Due belle copertine possono costituire la miglior chiave d'accesso a questo volumetto: quella dell'edizione einaudiana di La vergine nel giardino (1978), un'Elisabetta I di Anonimo dal viso pallidissimo e tagliente, in vesti sontuose trapunte di perle e di coralli, e quella di questo stesso volumetto, l'assorto Zola di Manet, colto con lo sguardo perso nel vuoto davanti a una disordinatissima scrivania sovraccarica di libri e brochures, e sormontata da una riproduzione dell'Olympia e da una stampa giapponese che alludono ai suoi interessi e alle sue battaglie di critico d'arte. Che cosa hanno in comune questi due ritratti, lontanissimi come epoca e come stile? Una cosa soltanto: il ruolo di spunto ispiratore che entrambi hanno assunto, in diversi momenti, nella vita di Antonia Byatt. Ritratti in letteratura ci racconta tutto questo, introducendoci nel laboratorio di una narratrice per cui la pittura è una presenza ossessiva sin dai tempi dell'infanzia, dominati, nella casa familiare di Sheffield, da un lato dalle immagini "materne" delle donne "operose nelle strade olandesi" di Vermeer e De Hooch, dall'altro dalle prospettive spaesanti e vertiginose dei pavimenti di Van Gogh.
Il ritratto di Elisabetta I che abbiamo citato funge da catalizzatore nella genesi del grande romanzo di Byatt sulla cultura degli anni cinquanta, La vergine nel giardino. Al progetto di quest'opera Byatt sta già lavorando, nel 1968, quando le accade di assistere alla performance di un'attrice che recita un "ritratto in parole" della regina vergine proprio di fronte a quel ritratto pittorico: tra il "volto dipinto" e il romanzo in gestazione si innesca una reazione di straordinaria intensità. Non soltanto il quadro e la performance saranno inseriti nel prologo della Vergine nel giardino, ma al centro della vicenda si collocherà un dramma storico in versi tutto impregnato d'ispirazioni pittoriche. Tra i "velluti color castagna o crepuscolo" e le "cuciture a filo d'oro " dei suggestivi costumi secenteschi, l'età di Elisabetta II si rispecchierà in quella di Elisabetta I, mentre la protagonista Frederica Potter, impersonando la regina adolescente, prenderà coscienza delle proprie inquietudini e contraddizioni di ragazza del ventesimo secolo.
Lo Zola di Manet ci riconduce invece alla genesi di Possessione (1990), lo splendido romanzo vittoriano incentrato su "ciò che le biografie non rivelano": soggiace, come visibile ipotesto, al ritratto che Manet, nella finzione, dipinge dell'immaginario scrittore Randolph Ash, la cui enigmatica personalità resterà, al di là delle varie immagini che la fissano, indecifrabile. Quella dei lineamenti di Ash, che finiscono per diventare inafferrabili per il lettore, perché l'autrice li mostra attraverso rappresentazioni pittoriche divergenti che finiscono per elidersi reciprocamente, è una vicenda emblematica. È rappresentativa del tormentato rapporto che intrattengono pittura e letteratura, attratte da reciproca fascinazione, ma anche in perenne tensione e concorrenza. È quel che ci mostra qui Byatt guidandoci attraverso pagine di Balzac e Zola, Proust e Wilde, James e Rushdie, nelle quali immaginazione pittorica e immaginazione letteraria si fronteggiano in un lungo dialogo che è quasi un duello.
Mariolina Bertini
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