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Salutz 1984-1986 - Giovanni Giudici - copertina
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Salutz 1984-1986 - Giovanni Giudici - copertina
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Descrizione


Legato fin dall’origine al nome di “Salutz”, il libro che costruito per l’intenso e ossessivo spazio di un biennio, Giovanni Giudici non ha voluto sostituire con altro titolo più accattivante l’antico termine provenzale; a un medesimo grado di pertinenza, avrebbe potuto del resto attingere, per analogo prestito, alla tradizione del Minnesang germanico, anch’essa qui rievocata. Ma certe allusioni alla convenzione letteraria (tra cui l’uso del “voi”, allocutivo cortese) altro non sono, in questo inaspettato e commosso poema di “maschere” e “senhals”, che procedimenti stilistici volti a condurre all’assolutezza dell’arte una materia fin troppo sangue-e-lacrime, fin troppo creaturale. E una funzione alquanto simile appare affidata ai vari scatti e scarti d’ordine più propriamente linguistico, incursioni in domini alieni o irruzioni di una fantasia tesa a toccare la misteriosa cosalità di parole-stelle che guidano la “Queste” del poeta, moderno eroe di fiaba, nel suo inseguire (ma talora sfuggire) una Minne che è forse la Poesia stessa in quanto senso della Vita: ora buia spina punitrice, ora ingannevole miele, madre-amante, grembo della notte originaria e finale. Esempio di una linea italiana che, sotto lo schermo di maniere illustri, propone una lingua poetica audacemente innovativa nella sua “volontà di dire”, Salutz segna nell’ampio e ricco paesaggio dell’opera di Giudici una svolta fondamentale; e, insieme, un punto altissimo di evidenza nella poesia contemporanea.

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Dettagli

1986
1 gennaio 1997
106 p.
9788806593636

Voce della critica


recensione di Brioschi, F., L'Indice 1986, n.10

"Sto lavorando a una sequenza poetica più o meno ironicamente ricalcata sui modi della poesia trobadorica provenzale e del 'Minnesang' germanico. L'io di queste poesie e una specie di cantore-cavaliere che viaggia un po' in tutti i tempi (pare che abbia persino preso parte, lui che parla come un poeta del XII o XIII secolo, alla battaglia della Montagna Bianca, presso Praga, che ebbe luogo nel 1620!) e attinge a materiali di varie culture ('cavalca' per esempio 'una tigre'!)". Così, nel 1984 (cfr. "Viola e durlindana: riflessioni sulla lingua", poi ristampato in "La dama non cercata", Mondadori, Milano 1985), Giudici descriveva "Salutz". Iniziata giusto in quei mesi, subito dopo la pubblicazione di "Lume dei tuoi misteri"(1984), e portata a termine a distanza di due anni, questa nuova "sequenza" viene oggi a confermare una felicità di disposizione poetica che, a partire da "Il ristorante dei morti" (1981), non trova riscontro alcuno nei nostri anni '80: nessun altro autore di versi, voglio dire, ha in questi anni precisato e innalzato la propria fisionomia come a Giudici è riuscito di fare, n‚ arricchito il proprio canzoniere con così costante vena e qualità di risultati.
Il "cantore-cavaliere" di "Salutz" indirizza alla sua dama ("Minne, Midons, Domna") una sorta di rievocazione e commiato, secondo le suggestioni del genere trobadorico "prevalentemente amoroso" a cui il titolo appunto si richiama, contaminate dal ricordo della "lettera epica" scritta nel 1205 da Raimbaut de Vaqueiras al marchese Bonifacio di Monferrato, che con la sua "garbata ma ferma richiesta di riconoscimento per i servigi resi" ha prestato a Giudici, come racconta la "Nota dell'autore", la prima idea del libro. Ancora una volta, dunque, Giudici sceglie di oggettivare l'io lirico in un personaggio costruito e messo in scena a recitare i suoi monologhi-dialoghi, a dare un corpo di parole ai fantasmi della sua esperienza. E ancora una volta, in questo personaggio, riconosciamo alcuni tratti salienti di quelli che l'hanno preceduto: un sentimento di trepida creaturalità, minacciata e offesa nelle sue aspirazioni più elementari, e insieme qualcosa come un arreso disgusto di sé, che lo induce a esibire la sua fragilità umana come viltà complice o colpa, in una rappresentazione volutamente degradata del proprio smarrimento esistenziale ("Quanto scavai quanto scavai nel tetro / Buio budello eterno / A districare spaghi rappezzando / Miei stracci di ricordo ragno e talpa", "Fu nostra parte il nero della stiva / Ansimando su e giù / Alla galera al remo alla deriva").
Una sindrome siffatta ha saputo tradursi, dall'uno all'altro libro di Giudici, in una pluralità straordinariamente plastica di situazioni, avvenimenti, ritratti: e a buon diritto la sua opera è stata definita il più imponente episodio di "realismo poetico" del nostro dopoguerra. Ma il termine merita alcune precisazioni. "Realismo" è per Giudici anzitutto un'attitudine nei confronti della lingua: questo italiano divenuto "lingua nazionale dell'uso" proprio con la generazione a cui egli appartiene (e che già per questo di fatto si distingue dalla generazione anche solo immediatamente precedente di un Sereni o di uno Zanzotto); questa "lingua di comunicazione" che è al tempo stesso una lingua mortificata, "scribacchiata da pletore di giornali, riviste e cattivi libri, gracchiata da milioni di radioline, offesa da valanghe d'impostura pubblica e privata, stravolta dalle smorfie dei pupazzi televisivi, saccheggiata dal sistematico perseguimento del sensazionale, blaterata dai falsi maestri del pensiero..." (cfr. "Un paese di dialettanti", 1982, poi in "La dama non cercata", cit.); questo nuovo volgare insomma, il cui trionfo è anche e contemporaneamente sfacelo, nella sua "variante colta milano-romanese" o nella sua "variante umile tosco-genovese", è scelto sin dall'inizio a materia e luogo della propria "quˆte". Qui egli ricerca, come un poeta delle origini, le virtualità riposte, le avventurate coincidenze che la trascolorino in lingua d'arte (e si veda ancora, in proposito, il citato "Viola e durlindana"). Tale attitudine risolutamente ostile a ogni lingua poetica prefabbricata e separata, anche se memore di una sua propria tradizione elettiva da Pascoli a Saba, ha certo trovato spontaneamente espressione in modi che potremmo qualificare (appunto in senso stilistico-retorico) come comico-realistici: ma forse sarebbe più corretto parlare di una naturale disposizione alla contaminazione e alla mescolanza dei registri, costantemente incalzata, a sua volta, da un prodigioso fervore ritmico, da un senso visionario della parola come presenza fisica, dal virtuosismo di una sintassi ora scorciata, fitta di inversioni, ellissi, nominalizzazioni, anacoluti, ora precipite in sequenze parallelistiche fino alla sublime tiritera.
Assiduo e accanito fabbro del parlar materno, Giudici ha bensì spesso affidato alle sue "maschere" un'ottica "realistica"; ma era questo piuttosto "un realismo dimezzato e preterintenzionale", come è stato acutamente osservato, il realismo "di chi è costretto ad una assoluta contiguità con gli oggetti, e tiene conto della realtà perché non può sorvolare su di essa: ne è investito in pieno, giorno e notte, nelle sue ansie coscienti e nei suoi agitati dormiveglia". In fondo il personaggio che egli mette in scena è sempre, in una sua maniera mite e senza pretese, apparentato ai personaggi di Kafka, e comunque già ci ha messi sull'avviso con un suo presago apoftegma: "Non cerco la tragedia, ma ne subisco la vocazione". Allora si capisce perché, quando la "realtà" che ora lo assedia è quella "fin troppo lacrime-e-sangue" evocata in "Salutz", la tensione tra linguaggio figurativo e colloquio interiore, tra mondo pubblico e ossessioni private, si accentua a favore del secondo termine. Ciò che sorprende, semmai, è l'esito di una svolta così delicata.
Con il suo "cantore-cavaliere", Giudici rivisita infatti la topica cortese dell'amore come esperienza esclusiva, nella variante però (più ardua e inconsueta) di conflitto, lacerazione, catastrofe: traducendola, con una reinvenzione dalla riuscita affatto originale, nella topica tutta moderna della nevrosi, della regressione all'ancestrale, della pulsione di morte. Alla struttura numerologicamente elaborata del libro (sette sezioni di dieci poesie, ogni poesia di quattordici versi per una somma di 980, a cui si aggiunge un Lais di venti versi portando il totale a mille) fa riscontro, sul piano stilistico, la tendenza a ricomporre la varietà dei moduli espressivi (dagli intarsi preziosi agli stranierismi, dal calco illustre al termine triviale) in una sorta di intenso, consumatissimo trobar clus che l'agio degli impeccabili endecasillabi e settenari (i due versi prevalenti in quasi tutte queste liriche) finisce spesso per porre in risalto proprio mentre lo scioglie in evidenza cantabile.
Il dispiegamento delle risorse di un mestiere ormai così interamente posseduto da esser diventato seconda natura, lungi dal coincidere con un esercizio più disteso e distaccato dell'arte, sembra al contrario assecondare un'urgenza oscura e inquietante: "quelle Muse-Furie che tuttavia mi perseguitano, impedendomi di adagiarmi, di spegnermi come vorrei, di annullarmi nel mare del non esserci..." (cfr. "La musa inquietante", 1983, poi in "La dama non cercata", cit.). Più ancora che alla conquista di uno stile "tragico", il trobar clus di Giudici si dischiude a una dimensione - propriamente "mistica" - un ansioso misticismo esistenziale che è forse la nota più nuova della sua ultima, più matura poesia. Ne risulta un libro certo difficile, che si rischiara solo a una lettura pazientemente compitata: ma ammirevole sempre, per l'incontrovertibile esattezza di certe variazioni su tema assegnato, la capacità di condensare il vagheggiamento iperletterario di cadenze, clausole, ritmi dimenticati con l'impegno in una scommessa vitale che non consente di essere elusa.
Giudici ha saputo, nella sua lunga carriera, condurre una personalissima, instancabile sperimentazione senza mai essere un poeta istituzionalmente sperimentale, ha fatto proprie tutte le malizie dell'arte senza nulla concedere al formalismo letterario; vietandosi nel suo artigianato la seduzione di scorciatoie risolutive, ha voluto presentarsi come un umile alunno delle Muse. Per una ragione o per l'altra, o magari anche solo per averlo preso troppo alla lettera, molti di noi hanno finito per attribuirgli una vocazione di poeta minore, certo di grande talento e perfettamente compiuto nel suo genere, ma pur sempre minore Forse proprio in forza di tali ragioni la sua opera ha finito invece per smentirci. Nei nostri anni '80, caratterizzati significativamente (a differenza dello scorso decennio) più dalle fortune del verso che della prosa narrativa, ma più per merito di alcuni "grandi vecchi" (Caproni, Fortini o Zanzotto) che non dai molti giovani Orfei, non è forse un caso se a lui meglio che ad altri è riuscito di affiancarsi con piena autorità a questi rari maestri della poesia contemporanea.

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Giovanni Giudici

(Portovenere, La Spezia, 1924 - La Spezia 2011) poeta italiano. Ha esordito nel 1953 con Fiorì d’improvviso, cui è seguito L’educazione cattolica (1963). Estraneo alla poetica ermetica, fin dalle prime opere si è riallacciato alla tradizione crepuscolare e, in parte, alla linea dei poeti liguri, con particolare riferimento a Montale. Dopo le raccolte d’esordio, la sua stagione matura si è aperta con La vita in versi (1965), che contiene le poesie scritte negli anni 1957-65, e Autobiologia (1969, premio Viareggio), nelle quali l’io cantato si fa sociale, protagonista di una biografia autoironica, raccontata con tono volutamente medio, senza eccessi né accelerazioni, giocato tra un ritmo narrativo quasi prosaico e improvvisi spunti lirici....

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