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recensione di Rossi, P., L'Indice 1997, n. 1
Delle tante sezioni della 14a edizione di Cinema Giovani, la retrospettiva dedicata ai film ungheresi degli anni sessanta non ha ricevuto la giusta attenzione di pubblico che avrebbe meritato. La produzione magiara non è comunque un pianeta sconosciuto per gli spettatori italiani, a partire da quei film di Jancsó attenti alla poetica di Antonioni per finire a quelli regolarmente distribuiti nel circuito commerciale. Senza contare che tra le tante "nouvelles vagues" di quel decennio di grande rinnovamento, quella nata e cresciuta con lo studio Béla Balász sconta un maggiore rapporto con la storia nazionale e un minore coefficiente di quello spirito giovanile universale riscontrabile già solo nelle vicine Polonia e Cecoslovacchia.
Eppure, basta vedere il toccante cortometraggio vincitore a Cannes quest'anno - "Szél" (Vento), di Marcell Iványi, passato anche a Cinema Giovani - per ritrovare nel presente una traccia del cinema che fu di Gábor, Szabó, Elek, Huszárik, Gáal, oltre al già citato Jancsó. Il film prende avvio da una fotografia che si vedrà, nel finale, scattata in Francia nel 1951. L'autore ricrea un documento storico partendo dall'osservazione di tre donne con lo sguardo fisso in un misterioso fuori campo. Il vento soffia forte, sembra un incanto della natura. Ma il piano sequenza, lento ed emozionante, svela a poco a poco una realtà imprevedibile: il paesaggio contiene altri personaggi, anch'essi testimoni muti di impiccagioni che stanno avvenendo davanti ai loro occhi. Nessuna spiegazione (perché non reagiscono, chi li costringe a guardare, chi sta uccidendo chi): la storia è un interrogativo che si fa persino fatica a formulare al ritmo di un movimento di macchina, è nient'altro che il dolore senza parole di un punto di vista obbligato.
Si potrebbero descrivere in modi simili i film dei giovani registi di quarant'anni fa in Ungheria. Un gruppo con qualche comunanza in più dell'amore per il flipper che secondo Godard unificava i colleghi francesi, forse perché la censura di Stato obbliga a una certa omogeneità, almeno nella prima fase. Inoltre, il compito di sostituire il cinema di papà era assunto dai politici: una nuova generazione di cineasti avrebbe dimostrato che i carri armati del 1956 potevano conciliarsi con la promozione di un clima liberale in campo culturale.
Sciogliere e legare, perciò. Il titolo del film di Jancsó del 1963 e del catalogo è una perfetta descrizione di quel cinema. Che poteva anche sfuggire a certe regole di regime dal momento che la censura per esprimere il suo giudizio si limitava a leggere le trame. Capitò così ciò che racconta István Gaál in una delle interviste raccolte da Judit Pintér (insieme a quelle di Miklós Jancsó, András Kovács, István Nemeskürty, Sándor Sára, István Szabó): "Dal Ministero ricevemmo denaro per realizzare film nell'interesse di un obiettivo nascosto: gli uomini formati dal 'socialismo' dovevano soppiantare le vecchie volpi di un tempo che provenivano dal 'capitalismo'. Ma sotto questo punto di vista accadde esattamente l'opposto: il sistema si allevò una schiera di cineasti molto critica".
Una testimonianza la offrono quei cortometraggi d'inchiesta in cui chi sta dietro la macchina da presa interroga i vecchi sull'esistenza delle streghe nelle campagne o i bambini a proposito di chi fossero e dove siano andati quei signori che abitavano il castello, adattato ora ad asilo nido e biblioteca di quartiere ("Krónika" di Gáal, 1967, e "Kastélyok Lakói" di Elek, 1966). Un confronto intergenerazionale acuto, pur senza arrivare a quello spirito iconoclasta che muove le animazioni dello studio Pannónia (con il divertentissimo "Hídavatás" di Jankovics, 1969, storia di un nastro impossibile da tagliare durante una cerimonia d'inaugurazione, un vero e proprio schiaffo a chi detiene il potere a qualsiasi latitudine).
E ancor più significativi sono quei film dove questioni ideologiche vengono rappresentate nel vivo di uno spaccato storico in cui l'individuo viene posto di fronte alle sue responsabilità, al rapporto con la sua classe, all'idea stessa di felicità e di comunismo. E si scoprono così conflitti inediti e comprensioni tra nemici, desideri di fuga e bisogno di radici.
Il catalogo è strutturato in quattro sezioni. Oltre alle interviste e a un dizionario di registi, una parte consistente è dedicata a radiografare la cosiddetta Nuova Onda: i molteplici e vari apporti, la storia dello studio Béla Balász, il rapporto di parentela con altre cinematografie e quello di collaborazione con la letteratura. I materiali d'epoca riflettono invece un periodo denso di interrogativi, posti direttamente ai registi, agli scrittori, ai critici. I temi maggiormente in discussione riguardano l'esistenza di uno specifico stile cinematografico nazionale - spia di un ritardo che si avverte ma che neanche tutti gli autori intendono riconoscere -, la funzione sociale del cinema e i suoi rapporti con la storia e con la politica.
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