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Scioperi e conflitti sociali nell'Italia liberale. La relazione finale della Commissione ministeriale d'inchiesta sugli scioperi (1878)
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Dettagli

2000
1 novembre 1999
180 p.
9788879108478

Voce della critica


recensioni di Cammarano, F. L'Indice del 2000, n. 09

Il libro prende in esame il documento conclusivo dei lavori di una commissione ministeriale istituita nel 1878 da Crispi, ministro degli interni del governo Depretis, per indagare la natura del fenomeno degli scioperi agli albori dell'Italia liberale. La commissione, composta da magistrati e parlamentari, tra cui Luzzatti, Morpurgo e Alvisi (futuro responsabile dell'indagine sugli scandali bancari promossa dal governo nel 1889), rappresentava uno spaccato significativo, nella sua pretesa "neutralità" scientifica e giuridica, di quella classe dirigente liberale ansiosa di comprendere un paese "reale" estraneo e misterioso. Indagini private e pubbliche si moltiplicarono per tutti gli anni settanta: un'esigenza che, se in parte ricordava la curiosità dell'entomologo, di fatto era dettata dalla necessità di prevenire quelle tensioni sociali già presenti in altri paesi.
L'indagine sugli scioperi è particolarmente rilevante perché si colloca all'inizio di una stagione peculiare della classe dirigente liberale, quella "cairoliana" delle garanzie per le libertà politiche. Furono questi gli anni in cui si registrò il massimo sforzo di accettazione controllata del conflitto, come in fondo anche la lettura di questo documento dimostra. La commissione infatti raccomandava, anche citando le legislazioni straniere, di "tutelare energicamente la libertà dell'azione così collettiva come individuale degli operai e degli industriali affinché i loro rapporti (...) possano svolgersi secondo la legge economica che li governa", in quanto "un intervento qualsiasi del legislatore nella lotta, sarebbe funesto non meno che illegittimo". Riecheggia qui lo spirito del futuro giolittismo, che riteneva le organizzazioni occulte più temibili delle palesi. Se tale convinzione avrebbe permesso di lì a poco, in campo politico, una maggiore intraprendenza organizzativa delle opposizioni sociali, nell'ambito socioeconomico essa lasciava la contesa capitale-lavoro sul terreno dei puri rapporti di forza, che poco avevano a che fare con una qualsivoglia legge economica. Giolitti, infatti, non si sarebbe limitato a lasciare organizzare gli avversari, ma si sarebbe munito di robusti strumenti di mediazione impensabili vent'anni prima. Qui tutt'al più la mediazione era affidata ai probiviri, nella piena consapevolezza comunque dei limiti di tale istituto. In effetti, alla volenterosa commissione non rimaneva che chiedere allo Stato di distribuire non le scarse risorse, ma "moralità". Constatato che, a differenza di altri paesi, "in Italia l'ubbriachezza è immune da qualsiasi pena", si proponeva di reprimere l'alcolismo, assurto a principale capro espiatorio del malessere sociale serpeggiante tra le classi operaie. Non era molto, ma era tutto ciò che scienza e giurisprudenza arrivavano a immaginare per impedire la degenerazione "presso di noi dell'antagonismo tra capitale e lavoro". La commissione chiudeva significativamente i battenti con l'amara denuncia dei propri limiti, in quanto nemmeno i "progressi delle scienze economiche e sociali", forse, sarebbero stati in grado di dare una soluzione a tale problema.

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