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Laureato in giurisprudenza, Giacomo Matteotti non era certo un economista. Era però un politico avvertito e termine, come noto, caduto oggi in disgrazia un intellettuale, pertanto attratto anche da temi apparentemente estranei alla sua formazione. Un interesse, quello per gli argomenti economico-finanziari, che egli ereditò dal fratello Matteo, alimentò attraverso i contatti con Ivanoe Bonomi e approfondì durante la sua esperienza prima di consigliere provinciale a Rovigo, quindi di parlamentare. Un interesse che trova oggi adeguato risalto nei due tomi curati da Stefano Caretti, un prezioso tassello delle opere complete del deputato socialista, la cui stampa è stata intrapresa nel 1981. Matteotti prestò grande attenzione anzitutto ai problemi della finanza locale, per dedicarsi poi alla difesa della libera concorrenza e al dibattito intorno al bilancio dello stato. Il reiterato invito a mantenere in equilibrio i conti pubblici obiettivo perseguito dai governi italiani sin dalla fase immediatamente postunitaria denuncia la sua impostazione classica, opposta (ma non potrebbe essere altrimenti) alle politiche di deficit spending che John M. Keynes avrebbe insegnato al mondo durante la depressione degli anni trenta. Ciò nonostante, al pareggio del bilancio Matteotti si dichiarò indisponibile a sacrificare quella parte della spesa pubblica destinata a sostenere la crescita economica e lo sviluppo sociale del paese. Con questa stessa lente vanno letti gli articoli sulla politica tributaria che egli pubblicò all'indomani del primo conflitto mondiale, quando gran parte delle entrate fiscali, in larga misura derivanti dall'imposizione indiretta e quindi inique, furono destinate alla copertura di un debito pubblico cui i governi Salandra e Orlando avevano sconsideratamente attinto per finanziare la guerra.
Roberto Giulianelli
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