Nella Civiltà del Rinascimento in Italia Jacob Burckhardt traccia un interessante ritratto di Urceo Codro quando parla del sentimento religioso nell'umanesimo: a Burckhardt Codro fornisce una bella prova della sua idea che gli umanisti intrattenessero con la fede cristiana un rapporto di sostanziale scetticismo unito a un prudente ossequio esteriore, salvo poi cercare il conforto della chiesa e dei sacramenti nel momento della morte, come appunto fece Codro. E a mostrare il suo tipo di religiosità Burkhardt riprende anche l'episodio delle invettive blasfeme lanciate contro Cristo e la Vergine da Codro in occasione dell'incendio del suo studio, con conseguente perdita dei libri e dell'opera alla quale egli stava lavorando, cui seguirono un giorno e una notte di vagabondaggio fuori della città e poi un periodo di sei mesi nell'officina di un legnaiolo, solo e senza libri, che non si sa se attribuire a timore di conseguenze o a desiderio di penitenza per quanto aveva osato dire. Certo è che Codro aveva una certa fama di empietà e che ricevette qualche accusa in proposito, ma la questione resta tuttavia complessa per un'epoca dove l'incroyance (per riprendere dal titolo di un celebre libro di Lucien Febvre) non era esattamente come sembra a noi che veniamo dopo le rivoluzioni culturali dei secoli XVII e XVIII. Per Burckhardt Antonio Cortesi, dettosi Urceus dal luogo di origine della famiglia e Codrus con riferimento a un poeta miserevole di una satira di Giovenale, è un umanista minore e tale lo si può certo considerare in rapporto a grandi filologi e intellettuali come Poliziano o Erasmo. Nato a Modena nel 1446, studia a Ferrara, fa il professore e il precettore a Forlì e poi a Bologna, dove insegna retorica e greco per circa vent'anni e dove muore nel 1500. Codro non è esente da contatti, diretti o mediati, con grandi umanisti (Poliziano ed Erasmo, appunto) e partecipa alla vita scientifica del suo tempo, come dimostrano i rapporti con Aldo Manuzio: resta nondimeno un umanista locale, legato culturalmente ed esistenzialmente a Bologna e alla sua tradizione di studi di origine solidamente medievale. Della produzione di Codro i Sermones (cioè le prolusioni dei suoi corsi universitari) sono la parte maggiore e certamente più interessante, dai quali viene una straordinaria testimonianza sui suoi studi e sul suo insegnamento. Da essi si ricava il grande amore per il greco e per Omero, il più grande degli autori antichi per Codro, e la sua efficace capacità linguistica, in un latino niente affatto pedante e poco dipendente dal modello ciceroniano. Ma nella fantasmagoria delle citazioni e degli accostamenti dai classici, propria del maestro più che del filologo, si insinua spesso una riflessione intensa sulla condizione e il destino degli uomini che è la cifra più interessante e coinvolgente dell'oratoria di Codro. Qui uno stile teatrale, che verrebbe da definire tragicomico, arricchito di un autobiografismo ironico, compone un discorso che parla di sé e di noi, del nostro destino di divenire alla fine fabula, cioè "storia", "racconto" di ciò che è passato, come gli antichi tanto ammirati, ma anche "diceria", "favola". Con questo discrimine si sarà certo misurata l'angoscia di Codro e si misura ancora la nostra. Walter Meliga
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