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Non è del tutto congruo classificare queste composizioni risalenti al biennio 1984-1986 come poesie (nonostante spesso ci si imbatta in endecasillabi, o endecasillabi più settenari, abilmente camuffati), né sarebbe appropriato parlare di aforismi, poiché non spacciano ricette di vita o di saggezza usa e getta: piuttosto esibiscono incertezze, implorano conferme. Potremmo concordare di chiamarle brevi prose poetiche, sottintendendo tuttavia che si tratta di messaggi, di probabili S.O.S. inviati più che al lettore, al protagonista stesso del volume, un signore d’oro definito con attributi ben poco caratterizzanti (bello e meraviglioso, accarezzabile, alato, lontano, profumato, studioso, gentile, notturno), con l’esplicita intenzione di lasciarlo sospeso in un’immateriale levità fantastica. Di lui sappiamo che veste un loden grigio lupo, che probabilmente si identifica con il dottore della dedica, il quale incontra regolarmente nel chiuso di un seminterrato una signora, nel reiterarsi di un rapporto riducibile in realtà a una terapia analitica. Ma “La realtà non c’era, era abdicata. // Splendidissima regnava la vita immaginata”: ciò che conta è il sogno, inteso più che come materiale onirico, come favola. Il tono narrativo è appunto quello fiabesco, scandito da insistenti anafore e da numerose anastrofi, dall’uso iperbolico di aggettivi, esclamativi e soprattutto avverbi, spesso reiterati, dalla costante pratica di interrogazioni retoriche, parodianti le cantilene infantili. I fili che reggono queste brevi illuminations avvolgono il lettore in un bozzolo di incantata leggerezza, invitando chi legge ad abbandonarsi a una berceuse di parole recitate con voce innamorata; se non che i frequenti bruschi risvegli richiamano a una realtà disperata, proprio nel senso di senza speranza: “Era un signore andato via. / A lei qui rimasta tantissimo mancava. / La traccia di lui lasciata segnava / ovunque intorno a lei l’aria. / Come un quadro spostato per sempre segna la parete".
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