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Gli slavi. Le civiltà dell'Europa centrale e orientale - Francis Conte - copertina
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Descrizione


Chi sono gli Slavi e da dove provengono? Costituiscono un’unità etnica, linguistica, culturale, una sorta di blocco solidale rispetto ai popoli latini e germanici o tra essi vi sono profonde differenze religiose, politiche ed istituzionali? Per dare una risposta a questi interrogativi che oggi sono quanto mai attuali ed urgenti, Conte risale alle origini di quei popoli che si addensarono nelle pianure dell’Europa orientale e ne studia, diacronicamente, le grandi correnti degli scambi commerciali, i metodi di lavoro e gli stili di vita, le strutture sociali, le grandi tendenze spirituali. L’autore individua una “specificità” slava attraverso una ricostruzione storica analitica ed insieme narrata che necessariamente chiama come testimoni cronisti e viaggiatori e, ancora, studiosi di arte e letteratura, etnografi e sociologi, economisti ed archeologi.

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Dettagli

1991
1 gennaio 1997
XXV-596 p.
9788806122577

Voce della critica


recensione di Wos, J.W., L'Indice 1991, n. 7

Gli avvenimenti che negli ultimi dieci anni hanno sconvolto l'assetto politico di quella parte d'Europa che si è soliti definire orientale hanno spesso attirato l'attenzione della stampa e dell'opinione pubblica. Ma, a fronte della vasta produzione giornalistica suscitata da questo interesse, scarso è il numero delle opere in lingue occidentali che si propongano di fornire un panorama sufficientemente ampio e scientificamente attendibile della civiltà slava. In particolare il lettore italiano ha a disposizione due soli testi di carattere generale, entrambi non privi di vari difetti. Da una parte "Gli Slavi nella storia e nella civiltà europea" di Francis Dvornik, lavoro uscito negli Stati Uniti nel 1962 e tradotto dalla Dedalo sei anni più tardi; e dall'altra "Gli Slavi. Popoli e nazioni dall'VIII al XX" secolo di Roger Portal, opera estesa e ben strutturata ma politicamente orientata, stampata dagli Editori Riuniti nel 1975 (ed. francese 1965).
Nella prima di queste due opere il lettore trova un vasto affresco di storia dell'Europa orientale, nel quale però, in contrasto col titolo stesso del volume, il ruolo del popolo slavo nella storia dell'oriente europeo - come etnia indipendente e anche contrapposta alle altre - non viene posto in particolare evidenza. Il taglio cronologico scelto da Dvornik ha infatti come conseguenza inevitabile un notevole (e per il lettore estremamente faticoso) frazionamento della narrazione: gli stessi argomenti sono trattati a più riprese, magari a distanza di centinaia di pagine, nel contesto delle singole storie nazionali dei vari paesi, e l'impressione che si ricava alla fine dalla lettura è che una storia unitaria e complessiva dell'Europa orientale non sia possibile. Certo, a tale esito concorre anche la scelta del periodo preso in esame, che è quello che, tra il XIII e il XVIII secolo, vede il formarsi o il consolidarsi degli stati europei orientali, dunque un'epoca in cui il processo di differenziazione nazionale procede con particolare vigore e induce a sottolineare gli elementi di diversità piuttosto che quelli di continuità e di condivisione di un originario ma ormai lontano patrimonio comune. Ma è la particolare prospettiva "evenemenziale" a determinare la "policentricità" del racconto: facendo anzitutto storia di avvenimenti, Dvornik non poteva non tener conto del contesto in cui i paesi con predominante etnia slava si trovavano. Così egli si vede costretto ad allargare l'orizzonte non solo all'impero asburgico, la cui storia è indissolubilmente intrecciata a quella della Slavia occidentale, non solo all'impero ottomano o a quello bizantino, ma anche alle vicende di stati ed etnie non slave presenti in seno alla stessa Europa orientale: gli ungheresi, i romeni e i balti, ad esempio.
Il lettore chiude dunque il libro di Dvornik con consistenti dubbi sull'opportunità di intitolare un'opera di storia evenemenziale a un gruppo etnico, quello slavo, le cui famiglie avevano preso ormai da secoli strade tanto diverse e si interroga sulla legittimità di postulare l'esistenza di una specificità slava assunta invece da Dvornik come presupposto implicito della ricerca, sostenuto da argomentazioni sommarie e per la verità un po' vaghe. Ora, proprio a questo fondamentale problema, sottovalutato da Dvornik e schivato anche da Portal, è dedicato il poderoso volume di Erancis Conte che qui si presenta. Apparso in edizione originale nel 1986 con il titolo "Les Slaves. Aux origines des civilisations d'Europe", il libro non è stato scritto sull'onda degli avvenimenti recenti, ma è al contrario frutto di una lunga serie di ricerche compiute in Inghilterra, negli Stati Uniti, nell'Unione Sovietica e infine in Francia, dove Conte è attualmente professore di civiltà russa e sovietica presso la Sorbona a Parigi.
L'opera, che non sfiora neppure il problema di che cosa sia l'Europa orientale e si propone invece come analisi complessiva dell'universo slavo, è strutturata in otto libri-capitolo, designati con lettere dell'alfabeto dalla "A" alla "H", quasi tutti di analoghe proporzioni e ognuno rivolto all'esame ad ampio raggio di un particolare argomento, a partire dalle fasi più antiche della storia slava.
Il primo libro è consacrato alla definizione dello spazio slavo originario, problema sul quale - in assenza di qualsivoglia base documentale - non c'è tuttora completo accordo fra gli studiosi, e alla descrizione del suo espandersi sotto la spinta delle grandi invasioni che hanno luogo a cominciare dal V e VI secolo e poi soprattutto dalla metà del VII in avanti: un processo di diffusione in ogni direzione - verso sud est e ovest - che porta col tempo gli slavi a distinguersi in gruppi sempre più diversificati, e che raggiunge il culmine a ovest e a sud nel secolo VII, mentre a oriente si arresta solo nel secolo scorso, conducendo queste genti fin sulle coste del Pacifico. Conte cerca di determinare che cosa il popolo slavo abbia lasciato di sé, dal punto di vista etnico, economico e sociale, nei territori in cui si insediò e quanto ancora oggi di questo passaggio resti eventualmente visibile. Questa indagine, che si ispira in parte alle ricerche degli storici slavofili dell'Ottocento, è compiuta in primo luogo con riferimento all'odierna Germania, che nell'VIII secolo fu penetrata assai in profondità dagli slavi, i quali vi restarono per secoli, come testimonia un infinito numero di località il cui nome è di derivazione slava. Valga un solo esempio fra i numerosi citati da Conte, quello di Berlino, il cui nome andrebbe riallacciato allo slavo 'berlo' "bastone", "palo", per cui Berlino starebbe a indicare un luogo "circondato da pali". Vengono poi esaminati gli spostamenti e gli insediamenti slavi in Grecia, nell'Asia Minore e infine, il processo di diffusione dei russi verso oriente.
Col secondo libro "L'eredità delle civiltà slave precristiane" - Conte intende sfatare l'idea che gli slavi non possedessero una civiltà propria anteriormente al contatto con germani, scandinavi e bizantini, idea che sta alla base del fatto che gran parte dei lavori sugli slavi non risale oltre il secolo IX. Per scandagliate queste epoche, restate a lungo inaccessibili, Conte fa ricorso in primo luogo alla linguistica, grazie alla quale ci è permesso di spingerci assai indietro nel tempo, fino a un'epoca anteriore al grande processo di separazione delle diverse famiglie e alla formazione delle loro varie lingue. Lo studio delle fonti arabe e bizantine consente poi a Conte di ricostruire la cultura materiale degli slavi, le loro abitudini circa il vestiario, l'alimentazione, la vita quotidiana: tutti aspetti su cui significativi elementi documentari sono offerti dai risultati delle ricerche archeologiche, sempre posti a confronto, laddove è stato possibile, con le testimonianze scritte. Anche l'analisi delle strutture sociali è compiuta nel tentativo di definire quanto è retaggio dei tempi più remoti e quanto è invece frutto di evoluzioni successive. A questo proposito, Conte segnala, fra le caratteristiche più costanti, la disponibilità della gente del popolo a impegnarsi nella difesa del proprio territorio e a sacrificarsi personalmente in nome della collettività, oltre a un fortissimo sentimento dell'ospitalità.
Il terzo libro è dedicato allo studio della condizione della donna in seno alle società slave e del suo ruolo, particolarmente indipendente, all'interno della comunità e della famiglia. Ancora una volta attingendo a un ricco repertorio di miti e leggende, sono considerati gli aspetti essenziali della vita della donna, i suoi margini (assai ampi) di libertà, le funzioni sociali e familiari, l'amore, i rapporti con il soprannaturale.
Segue un libro intitolato alle comunità slave, in cui sono esposti i risultati delle ricerche specialistiche sulle strutture familiari e l'organizzazione tribale. Ricerche che si sono rivelate particolarmente fruttuose per spiegare come i caratteristici rapporti fra individuo, gruppo e potere propri delle genti slave abbiano avuto un'influenza fondamentale sui sentimenti di solidarietà e sul senso di responsabilità collettiva, ritenuti da Conte tratto distintivo dei popoli slavi ancora oggi. In particolare, lo studioso si chiede se la collettivizzazione dei beni e dei mezzi di produzione realizzata nei paesi del cosiddetto socialismo reale e soprattutto nell'Unione Sovietica sia in qualche modo da ricollegarsi all'atavica "grande famiglia" slava, le cui arcaiche forme di proprietà comunitaria si sono perpetuate per lunghissimo tempo, a volte fino al secolo scorso. La conclusione cui egli giunge è che il permanere della "famiglia allargata" ha indubbiamente agevolato la creazione di soviet e cooperative. Ma ecco a grandi linee gli altri tratti specifici delle comunità slave: proprietà collettiva dei beni immobili e degli attrezzi da lavoro, esercizio collegiale dell'autorità, un sistema di valori fondato sulla considerazione del bene comune.
Il mito delle origini autoctone - problema quanto mai sentito dai popoli dell'Europa centrale e orientale che, spesso dominati o sopraffatti da altri, sono andati alla ricerca delle proprie radici - spiega l'importanza che hanno avuto le indagini sulle civiltà anteriori all'era cristiana, a partire da quella lusaziana. Da tali indagini prende le mosse Conte nel libro successivo, intitolato "Gli Slavi e l'Oriente, miti e realtà". Fin dall'inizio della loro cristianizzazione, e poi per tutta la loro storia seguente gli slavi si trovarono attirati da due diverse zone d'influenza, quella bizantina e quella romana: un aspetto al quale è dedicato in particolare il libro F dell'opera, che analizza la fondamentale esperienza dell'evangelizzazione degli slavi, compiuta innanzi tutto dai bizantini, per arginare la pressione sempre più forte esercitata dall'impero islamico, e poi anche dalla chiesa di Roma, del pari preoccupata dei delicati equilibri di potere in quell'area nevralgica, posta 'in finibus christianitatis'. È inutile sottolineare quanto, in questa azione, religione e politica fossero indissolubilmente intrecciate.
Più specificamente dell'eredità lasciata dall'impero bizantino si occupa il penultimo libro dell'opera. Tale retaggio è analizzato negli aspetti sia politici sia culturali ed è considerato da Conte, e a ragione, assai cospicuo: non solo, infatti, per secoli i paesi slavi "importarono" da Bisanzio idee e uomini di cultura, ma un elevatissimo numero di monaci slavi ortodossi si formò nei monasteri della Grecia, soprattutto sul Monte Athos, "capitale spirituale del modo ortodosso". Nell'indagine i rapporti fra la spiritualità slava e il cristianesimo orientale, Conte si sofferma a lungo sulla tipica figura russa del "folle in Cristo", il cui comportamento sarebbe da ricondurre tanto ai rituali precristiani rimasti in parte vivi fino al secolo scorso nello sciamanismo quanto all'ascesi cristiana di stampo orientale. Quanto poi l'influenza bizantina si sia fatta sentire nel modo di concepire il potere negli stati slavi orientali è oggetto della seconda parte di questo libro che analizza al proposito il mito della "terza Roma", mito che - è giusto ricordarlo - è proprio non solo della Russia ma anche di Bulgaria e Serbia, paesi sviluppatesi sotto la tutela di Bisanzio.
L'ultimo libro del volume tratta dell"'idea slava" e di come essa abbia alimentato un vero e proprio mito, dando luogo al panslavismo prima e al panslavismo autoritario degli zar russi e di Stalin poi. Nel rintracciare e annodare le fila disperse di questo mito, Conte mostra come esso attraversi tutta la storia del mondo slavo dal medioevo - si ricordi la celebre miniatura dell'evangeliario di Ottone III (983-1002), in cui la Sclavinia personificata rende omaggio all'imperatore seduto sul trono con accanto Roma, la Gallia e la Germania - fino alla nostra età. È inutile dire che, sebbene le sia dedicata l'ultima parte dell'opera, la rievocazione dell"'idea slava" ne sta invece all'origine e in qualche modo l'ha sollecitata.
Come afferma lo stesso Conte, l'opera non intende essere una storia tradizionale dei singoli popoli slavi e delle loro vicende, ma una vasta rappresentazione dell'universo slavo. Di qui il rifiuto del criterio cronologico a favore di un'analisi tematica che privilegiando la storia della cultura e delle mentalità, lascia poco spazio agli eventi. Ne risulta un'opera "aperta" e "policentrica" che proprio per l'arditezza dei tagli trasversali che la definiscono e la strutturano, non è esente da ripetizioni e soprattutto presuppone un lettore colto, se non specialista. Del resto Conte, nella sua costante ricerca di una specifica identità slava, non esita ad adottare coraggiosamente un approccio interdisciplinare, che di volta in volta valorizza gli apporti dell'archeologia, dell'economia, della filologia, della linguistica, dell'etnografia, della sociologia, della storia dell'arte e della letteratura costringendo il lettore a frequenti e bruschi salti da un campo disciplinare all'altro.
Occorre precisare che non ci troviamo di fronte a un'opera originale nel senso pieno della parola, ma piuttosto a una compilazione di buon livello. Ad esempio, come si è già osservato, l'analisi linguistica, specie in relazione allo slavo antico, ha un peso notevole nella costituzione di capitoli fondamentali. Ma l'idea che esista e permanga un'unità culturale slava, al di là dei frazionamenti che hanno caratterizzato la storia di quel mondo, non è nuova. In particolare, il tentativo di individuare le invarianti linguistiche (intese come vettori di quelle più generalmente letterarie) di tale unità è stato compiuto - per fare solo alcuni nomi della slavistica recente - da studiosi come R. Jakobson, N. Tolstoj e R. Picchio. Insomma, in questo ambito come in altri, Conte si è limitato a combinare in un quadro organico i risultati di ricerche specifiche condotte da altri, spesso senza neppure preoccuparsi di indicare chiaramente la letteratura critica utilizzata. Può inoltre infastidire il lettore specialista il fatto che egli, seguendo una prassi metodologicamente poco corretta, citi spesso le fonti documentarie di seconda mano, magari sulla scorta di traduzioni più o meno affidabili (è questo il caso, ad esempio, della "Cronaca" latina del cosiddetto Gallo Anonimo, citata dalla versione russa).
Anche l'interpretazione storica di alcuni nodi essenziali del processo di formazione dell'universo slavo lascia quanto meno perplessi. Mi limiterò a un solo esempio significativo: il quadro tracciato da Conte delle teorie panslaviste e del dibattito sul ruolo guida svolto da russi e polacchi nella liberazione dei popoli slavi balcanici dal giogo turco, un aspetto che di quelle teorie è parte integrante. In generale, Conte, pur diffondendosi anche su questioni connesse con la storia e la cultura di bulgari, polacchi, cechi e di altre nazioni appartenenti al ceppo slavo, si concentra soprattutto sulla civiltà russa, di cui è specialista, producendo un certo squilibrio nell'economia dell'opera. Così, anche nel ricostruire quel delicato capitolo della storia politico-ideologica del mondo slavo che è il dibattito sulla funzione di popolo guida all'interno del movimento di unificazione di tutti gli slavi e di liberazione dal dominio turco, Conte traccia un quadro a mio parere unilaterale, dando rilievo esclusivo al ruolo assunto dalla Russia e minimizzando invece quello svolto dalla Polonia nel XVII secolo. Poiché si tratta di una vicenda importante ma non sufficientemente nota, credo possa essere utile, anche nel contesto di una recensione, richiamarla per brevi cenni.
Dopo che l'esercito polacco sbaragliò i turchi a Chocim nel 1621, Ivan Gundulic, il maggior poeta del periodo aureo della storia letteraria di Ragusa, dedicò il poema epico "Osman* a Ladislao Wasa, ancora principe, che aveva preso parte alla battaglia, salutandolo come futuro liberatore di tutti gli slavi meridionali. Una volta eletto re di Polonia, dopo la morte di Sigismondo III (1632), Ladislao IV Wasa concepì effettivamente un vasto progetto di guerre antiturche che prevedeva un'alleanza con i cosacchi e avrebbe dovuto portare alla liberazione dei Balcani dal giogo ottomano. Questo piano, che non si realizzò per un contrasto di interessi tra la corona e la piccola e media nobiltà polacca ('szlachta'), contribuì però a creare fra i bulgari un clima di attesa e speranza nei confronti della Polonia. Tali aspettative non morirono con la scomparsa di Ladislao IV, nel 1648, ma anzi ripresero con ancor più vigore nella seconda metà del secolo quando nel 1674 salì sul trono polacco Giovanni Sobieski, le cui grandi doti militari e le numerose vittorie ebbero un peso determinante nella decisione della nobiltà di eleggerlo re nonostante non provenisse da una casata di primissimo piano. Fu Sobieski a condurre alla vittoria gli eserciti alleati polacco, austriaco e tedesco nella battaglia di Vienna (1683), che decise le sorti dell'impero e della stessa Europa, la cui compagine era stata posta in pericolo, e che fece del condottiero polacco l'eroe di tutta la cristianità.
La battaglia di Vienna segn• la fine dell'espansione dei turchi in Europa e il tramonto dell'immagine del pericolo ottomano, uno spauracchio che varie potenze avevano sfruttato l'una contro l'altra a diverse riprese. Ma al di là di questi aspetti noti e dibattuti, varrà la pena di ricordare quali conseguenze ebbe questa vittoria nell'area più circoscritta del mondo slavo-balcanico, per il quale costituì una svolta storica decisiva. Essa, infatti, contribuì potentemente a introdurre un fattore dinamico nello sviluppo della storia nazionale dei popoli balcanici, che da secoli vivevano sotto la pesante occupazione ottomana. Prese così corpo la prospettiva di una lotta per l'indipendenza che, se non era un'aspirazione nuova, cominciò però a diffondersi come una possibilità realistica.
Dopo la battaglia di Vienna queste speranze acquistarono nuovo vigore: si pensava infatti che Giovanni III Sobieski e l'imperatore Leopoldo I avrebbero condotto una guerra per la liberazione di tutti i popoli dei Balcani dal giogo turco. Prima conseguenza del risveglio delle varie speranze nazionali furono le numerose sollevazioni contro i turchi nelle regioni bulgaro-macedoni: fra queste, la sollevazione a Tƒrnovo del 1686 e la grande rivolta del 1688 a Ciprovec, isola cattolica fra gli ortodossi (in quest'ultimo caso ci fu un terribile eccidio della popolazione, e i pochi scampati emigrarono in Valacchia o nei confini dell'impero asburgico). Infine, nel 1689, va registrata una grande rivolta guidata da Karpos.
Nelle regioni serbe questi sentimenti trovarono espressione nella generale partecipazione del popolo alle attività belliche dell'esercito imperiale negli anni ottanta. Con l'inizio della ritirata austriaca dalle terre occupate dagli ottomani, i serbi furono costretti ad abbandonare la loro patria e a trasferirsi in nuove terre. Nel 1690 circa centomila serbi, guidati dal loro capo spirituale, il patriarca Arsenije Carnojevic, si stabilirono nella regione che sarà poi chiamata Voivodina, e diverrà il centro più importante della vita serba. Si tratta di un'emigrazione che segna una svolta anche nella storia culturale di queste popolazioni, e degli slavi balcanici in generale. Lo stanziamento entro i confini del dominio asburgico permise infatti i primi contatti durevoli con la cultura occidentale, che viveva allora la grande stagione del barocco, e ciò significò per i serbi il passaggio da una cultura mista di tipo tradizionale-bizantino a una di tipo occidentale.
La ricchezza e le ambizioni del libro avrebbero forse richiesto che esso fosse corredato di un'adeguata bibliografia, intesa sia ad attestare i suoi debiti nei riguardi degli studiosi precedenti, sia a fornire al lettore chiari punti di riferimento nella sterminata selva della letteratura critica. Al contrario la bibliografia citata da Conte, del tutto insufficiente, ignora studiosi della levatura di Picchio e Lichacev e trascura quasi completamente i contributi della ricerca tedesca.
Il volume è per contro corredato di ottimi e utilissimi indici, dei nomi di persona e degli dèi, delle etnie e delle nazioni, dei nomi geografici, degli argomenti principali e infine dei testi antichi.
Come ricorda lo stesso Conte, gli slavi costituiscono un terzo della popolazione del nostro continente, del quale occupano più della metà del territorio: studiarne la storia e la cultura significa quindi penetrare più a fondo le origini e lo sviluppo dell'intera civiltà europea.

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