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La specie umana - Robert Antelme - copertina
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Descrizione


Il libro non sembra tradire l'urgente bisogno di raccontare, di oggettivare la tremenda esperienza, che è tipico dei reduci. I fatti hanno già subito una decantazione, per cui l'esposizione di quello che è stato, di quello che è potuto succedere, si fa asciutta, distaccata, ma anche tanto più efficace di qualsiasi grido di denuncia. La miseria fisica, l'abbruttimento, la battaglia quotidiana per il cibo e per la vita non attutiscono l'attenzione quasi antropologica del prigioniero per quello che gli succede intorno.
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Dettagli

1997
Tascabile
1 gennaio 1997
360 p.
9788806129538

Voce della critica


recensione di Scarpa, D., L'Indice 1997, n. 7

Quando qualche mese fa ho letto "La specie umana", di Robert Antelme sapevo poco. Sapevo che era nato in Corsica ma aveva sempre vissuto a Parigi. Che era coetaneo di Primo Levi (1919). Che era stato deportato a Buchenwald come "politico" (non era ebreo). Che il suo libro era stato pubblicato nel 1947, stesso anno di "Se questo è un uomo", e con successo iniziale altrettanto scarso. Infine, che sua sorella Marie-Louise, deportata anche lei, era morta a Ravensbrück. Poco dopo imparavo che aveva sposato Marguerite Duras (è lui il Robert L. del "Dolore") e che Elio Vittorini aveva voluto il suo libro nei "Gettoni". (In che anno? Bastava consultare il catalogo storico Einaudi: 1954. Fu per questo che lo "accusarono" di aver ritardato fino al '58 la ripubblicazione einaudiana di Levi).
Il libro era davvero un capolavoro e ce n'era abbastanza per incuriosirmi: Antelme era ancora vivo? Aveva scritto altri libri? Breve ricerca: no, era morto nel 1990 senza aver pubblicato altro. Ma poi c'era quella "rivalità" con Levi, la polemica oramai ventennale sulle scelte editoriali Einaudi, quei suoi compagni di Resistenza tra cui spiccava François Mitterrand, quel giro di amici (lui, Marguerite Duras, Dionys Mascolo, Elio Vittorini e sua moglie Ginetta) che si ritrovava ogni estate al mare, a Bocca di Magra... Ora "La specie umana" è stato ristampato nei "Tascabili Einaudi". Lo accompagnano stavolta un'intelligente e pugnace prefazione di Alberto Cavaglion e una testimonianza di Hermann Langbein (l'autore di "Menschen in Auschwitz"): Antelme è tornato visibile. Ma resta da raccontare una piccola storia. Eccola.
Antelme sposa Marguerite Duras nel 1939, ma il loro è un ménage aperto. Già nel '42 lei si lega a Mascolo, che diventa subito il migliore amico di Antelme. Per molti anni il loro fraterno rapporto a tre sarà indissolubile, una "maison de verre", dice Mascolo. Nel settembre del '43 conoscono François Morland "alias" Mitterrand - allora responsabile del Mouvement national des prisonniers de guerre "- "e Edgar Morin, "il nostro primo comunista". Comincia l'attività clandestina. Antelme è arrestato nel giugno del '44 con la sorella. Due mesi più tardi è a Buchenwald, poi lo dirottano a Gandersheim, uno dei 136 campi satelliti. Poco prima della disfatta i tedeschi evacuano il campo, e con marce forzate portano i prigionieri a Dachau, facendo altre centinaia di morti. Gli americani liberano Dachau il 27 aprile del '45: ""Frightful, yes, frightful!" Spaventoso veramente!". Due giorni dopo Mitterrand visita il Lager e scopre Antelme in mezzo ai malati di tifo, in quarantena. Se non lo tolgono di là è morte certa. Mascolo e Georges Beauchamp, compagno di liceo di Antelme, s'introducono nel campo in divisa da ufficiali francesi, con falsi lasciapassare. Hanno un permesso per portare Antelme fuori dal campo e "interrogarlo". Lo cercano tra i malati. Una voce li chiama: riconoscono Robert dal solco tra gli incisivi. Otto mesi prima pesava ottanta chili. Ne pesa trentacinque. Lo caricano sulla jeep e fuggono verso la Francia. Antelme comincia immediatamente a parlare, a raccontare: continuerà giorno e notte, lottando contro la morte per consunzione, per cinque settimane.
Nel 1946 Antelme s'iscrive al Pcf. Il comunismo è l'esito naturale della lezione imparata nei campi: la fondamentale unità e indistruttibilità dell'"espèce" "humaine "al di là di ogni oppressione e orrore. Le SS possono uccidere il prigioniero ma non annientarlo né pervertirlo: "Volevate che ridesse mentre un Meister allungava colpi a un compagno, non ha riso". Cercando la soluzione di forza hanno perduto: "Voi avete fatto in modo che la ragione si trasformasse in coscienza. Avete rifatto l'unità dell'uomo". L'unità dell'uomo, la sua indistruttibilità, sarà l'essenza del "comunismo" di Antelme. In un suo breve scritto teorico il povero (quello della tradizione cristiana, vittima rassegnata del ricco), il proletario e il deportato diventano le figure di una personalissima fenomenologia dello spirito che scardina le antiche dialettiche sociali. Il deportato non è ricco né povero: per le SS è nemico in quanto esiste. E il rovesciamento dell'ordine sociale comincerà da lui, dalla sua volontà di sopravvivere: privo di tutto, possiede la forza dell'indistruttibilità della specie. Sarà il deportato, nuova figura sociale e ontologica, a portare nel mondo una presa di coscienza rivoluzionaria.
Antelme, la Duras e Mascolo incontrano Vittorini e Ginetta grazie all'amico comune Claude Roy. Nell'estate del '46 sono in Italia per la prima volta. Le prime pagine dell'"Espèce" "humaine" saranno scritte a Bocca di Magra sotto gli occhi del neoamico Elio. Il libro esce nel maggio '47 in autoedizione. La casa editrice di Robert e Marguerite ha per nome Éditions de la Cité universelle. Ha già pubblicato (occhio al titolo!) "L'an zéro de l'Allemagne" di Morin e le opere di Saint-Just. Del libro si accorgono in pochi: di guerra e di campi nessuno vuol sentir parlare.
Solo la battaglia politica appassiona: Vittorini ha appena pubblicato sul "Politecnico" la famosa lettera a Togliatti in cui si rende indisponibile a "suonare il piffero per la rivoluzione". In giugno Morin e Mascolo lo intervistano per "Les lettres françaises". A dicembre il "Politecnico" chiude: toccherà agli amici francesi dare battaglia contro la miopia dei dirigenti culturali Pcf, che condannano in blocco Breton, Leiris, Queneau, Camus e persino Sartre. Antelme osserva senza acrimonia che il Pcf, invece di dar vita all'intellettuale di tipo nuovo, ha prodotto un nuovo tipo di "con*. I Mario Alicata francesi si chiamano Laurent Casanova e Jean Kanapa. Antelme e Mascolo provano a contraddirli nell'aprile del '48: Louis Aragon li sconfessa pubblicamente. Si dimettono dal Pcf nel dicembre del '49, ma saranno ugualmente "espulsi" tre mesi dopo: il Pcf vitupera il surrealismo ma agisce secondo la sua logica controfattuale.
Intanto anche Vittorini ha rotto col Pci: il legame con gli amici francesi si rinsalda. Più tardi chiarirà i motivi della sua adesione al partito e della sua rapida delusione. Come molti altri giovani ex fascisti "di sinistra", Vittorini era entrato nel Pci sperando che il comunismo sarebbe diventato la continuazione della rivoluzione liberale, che avrebbe cioè inverato il liberalismo lasciando cadere il capitalismo. Utopia ingenua e letteraria, certo. Qualcuno però ci credette: i nostri anni cinquanta non furono un macigno stalinista privo di crepe e venature. Meglio di tutti li ha spiegati Calvino nella "Giornata d'uno scrutatore": "Il petto d'un singolo comunista poteva albergare due persone insieme: un rivoluzionario intransigente e un liberale olimpico. Più il comunismo mondiale s'era fatto, in quei tempi duri, schematico e senza sfumature nelle sue espressioni ufficiali e collettive, più accadeva che, nel petto di un singolo militante, quel che il comunista perdeva di ricchezza interiore, uniformandosi al compatto blocco di ghisa, il liberale acquistasse in sfaccettature e iridescenze". (Non è questa anche la storia di Renzo Lapiccirella, che si scontra vanamente col tetragono Salvatore Cacciapuoti nel bellissimo "Mistero napoletano" di Ermanno Rea? Ma basta divagare. Quel che rimane è un senso di noia cenerognola, di enorme spreco d'energia per affermare principi di semplice senso comune).
Nella sua prefazione alla "Specie umana" Cavaglion sottolinea un fatto che era sotto gli occhi di tutti ma che nessuno aveva notato prima: la consonanza tra i titoli "Uomini e no" e "Se questo è un uomo". Con quel titolo, giocando su una labile sfumatura della nostra lingua, Vittorini volle alludere ai pericoli di caduta nell'inumanità latenti in ogni essere umano. L'immagine è destinata a fare scuola ma è ambigua: per cui Vittorini sarà costretto a precisare che non intende dividere "l'umanità in due parti: una delle quali sia tutta umana e l'altra tutta inumana. Il titolo francese [di "Uomini" e "no"] "Les hommes et les autres" opera invece tale divisione, e disturba lo stesso contenuto del libro". Cavaglion enfatizza giustamente il discrimine morale, netto e reciso, tra umano e disumano: un discrimine fondato sulla scelta responsabile dell'individuo davanti alla vita e alla morte dei suoi simili. Ma si può dire che l'alternativa uomo/non-uomo si dirama in due distinti principi, condivisi da Vittorini, Antelme e Levi: il primo è la nitida demarcazione morale che in ciascuno di noi separa l'umano dall'inumano. Il secondo è l'indistruttibilità della specie, di un nucleo biopsichico di identità, di pensiero e di resistenza alla degradazione.
L'insistenza di Cavaglion sulla parola uomo è opportuna. Di fatto il seme messo a dimora nel 1938 da Cesare Pavese con la sua traduzione di "Uomini e topi" di Steinbeck fruttificò subito dopo la Liberazione. Alla lettera: Vittorini consegnò a Valentino Bompiani il manoscritto di "Uomini e no" il 23 aprile del '45, e a giugno il romanzo era già in libreria. È da quel momento che in Italia spuntano a mille i titoli-uomo: "L'uomo senza miti" (1945) e "Il laboratorio dell'uomo" (1946) di Felice Balbo, "Dignità dell'uomo" di Massimo Bontempelli (1946), "Dentro mi è nato l'uomo" di Angelo Del Boca (1948). Nel loro idealismo ingenuo erano tempi fondamentalmente puliti e concreti: oggi i titoli grondano d'anima.
La figura di Vittorini come involontario suggeritore di titoli per Antelme e Levi può aiutarci a capire anche la storia della mancata pubblicazione di "Se questo è un uomo" presso Einaudi e della successiva "usurpazione" da parte di Antelme. Tutto quello che dirò lo ricavo da carte già edite, cioè le lettere di Vittorini. Tra quelle lettere ce ne sono molte alla Duras e a Mascolo. Il 28 gennaio 1950 Vittorini si rivolge in francese a quest'ultimo per esporgli la situazione editoriale di Robert: "L'altro ieri a Torino ho proposto a Einaudi di ritornare sulla questione dell'"Espèce" "humaine". È stato a proposito delle "Memorie da una casa di morti" di Dost[oevskij]: che ora credono di poter pubblicare. Quattro anni fa, con tutti i libri che c'erano (sul mercato), di carceri, di campi e di orrori, non l'avevano voluto pubblicare. Adesso che ci siamo allontanati dai nostri ricordi del '43-'45, pensano che sarebbe opportuno pubblicarlo, e allora io gli ho detto che, per lo stesso motivo, si potrebbe pubblicare anche il libro di Robert. Hanno accettato la mia proposta e vedranno, rileggeranno, decideranno".
La lettera illumina tutto un contesto editoriale e storico. Ricapitoliamo: nel '47 Einaudi rifiuta "Se questo è un uomo" "con una formulazione generica". Il rifiuto è comunicato all'autore da Natalia Ginzburg, ebrea come Levi. Suo marito Leone è stato torturato e ucciso a Regina Coeli dalla Gestapo. Stupore. Scandalo. Ma non sarà stato invece Pavese a leggere, a rifiutare? Non si sa. Adesso, però, si può dire che saperlo è meno importante: banali (magari antipatiche) ragioni di mercato condizionavano quelle vicende. La testimonianza di Vittorini è contemporanea ai fatti, viene dal di dentro e per di più non può essere insincera: da Mascolo sappiamo che Vittorini fece intraprendere la traduzione di Antelme subito dopo la pubblicazione, ma senza esito. Lo conferma una lettera del 7 luglio 1947 in cui Vittorini consiglia a Giulio Einaudi l'acquisto del libro: ma Einaudi non voleva ridursi a pubblicare la sola saggistica francese dopo che Bompiani gli aveva soffiato quasi tutta la narrativa. In altre lettere di Vittorini, poi, si sprecano gli accenni alle difficoltà di pubblicare libri sulla guerra "dopo tutta la barba che ce ne hanno fatto le pubblicazioni propagandistiche dei comunisti e dei fascisti".
Tardiva fortuna degli scrittori di Lager e ignavia editoriale: ignorato nel '47, Levi firma un contratto con Einaudi nel '55 e viene ripubblicato solo nel '58: altro scandalo per questo ritardo, rinfocolato di recente da parte francese. Ma a Parigi le cose andavano alla stessissima maniera: Antelme, che pure aveva entrature editoriali ben più possenti rispetto a Levi, nel '47 ottiene solo un successo di stima e deve attendere gli stessissimi dieci anni per essere riproposto da Gallimard - cioè dal suo datore di lavoro - nel 1957. Erano i ritmi editoriali di allora, almeno di fronte a libri così urticanti. Basti pensare che anche in Italia il libro di Antelme - il libro "raccomandato", il libro caldeggiato dall'amico Vittorini, il libro che avrebbe disarcionato Levi - dovrà aspettare la pubblicazione nei "Gettoni" einaudiani, da quel gennaio 1950, fino al 1954. E all'ultimo momento Vittorini (lettera a Mascolo del 19 febbraio 1954) dovrà addirittura chiedere all'amico di fare dei tagli.


recensione di Scarpa, D., L'Indice 1997, n. 7

Dovrei dire qualcosa sul libro di Antelme, ma l'impulso è di parlare dell'uomo. Ho letto molte testimonianze su di lui e tutte lo descrivono, con accenti sinceri, come una persona meravigliosa, una guida spirituale senza alcuna aura esoterica. Antelme possedeva la saggezza terrestre, mitigata da una dolcezza che torniva i suoi ferrei principi morali. Gli amici lo definiscono un "oracolo-fratello", un "flâneur" baudelairiano, un - bellissima parola - "voluptuaire". È l'uomo coltissimo (lettore per l'"Encyclopédie de la Pléiade" di Queneau) ma insofferente di sovrastrutture intellettuali, buongustaio, bravo giocatore di pallone, innamorato delle donne, toccato dalla grazia. Ciò che si può dire è che il suo libro gli assomiglia, ed è già un buon motivo per leggerlo.
"La notte di Buchenwald era calma". È da questo, come chiamarlo?, ossimoro ontologico, che discende tutto il libro di Antelme. Buchenwald. La notte. La calma. Robert Antelme, detenuto politico, trascorre otto mesi in un Lager senza camere a gas né forni né esecuzioni di massa. L'angolo visuale è diverso da quello dei deportati ebrei, ma il dato di partenza del libro è lo stesso: il bisogno vitale di raccontare e la difficoltà a mettere per iscritto l'inconcepibile. "La specie umana" segue anche l'andamento lineare - dai primi scontri col Lager alla liberazione - di molti testi concentrazionari e vi si ritrovano diverse caratteristiche di quei libri: attenzione ossessiva ai dettagli, visione minuta ma mai compiaciuta dell'orrore e della degradazione umana, figure nobili o abiette di compagni e aguzzini campite su uno sfondo di desolazione.
Ma allora che cosa fa di questo libro un oggetto unico? Questo: la furia con cui è scritto, la foga che lo trapassa, sempre padroneggiata da uno stile cristallino. Si è rimproverato ad Antelme questo ricorso alla naturale eloquenza della lingua materna, la rifinitura della sua frase e (soprattutto nella prima parte) lo squarcio meditativo in cui la coscienza politica, l'orgoglio, diciamo pure: la buona retorica della sopravvivenza morale, vengono fuori con piglio potente. Ma la voce di Antelme si solleva all'improvviso da quel buio di Buchenwald, dall'orrore delle cose raccontate, come un rintocco di grande campana. È questo a darle senso, e questo va capito: che ad Antelme l'eloquenza (l'affondo ragionativo, filosofico magari) servì prima di tutto a riprendersi il respiro: il respiro dei polmoni, non quello della sintassi. L'eloquenza surroga l'azione, lo slancio fisico, ma la sua ragione profonda è difensiva: aiuta a sostenere, a respirare, a scandire l'orrore.
Antelme ha accesso a due tipi di sguardo: lo sguardo d'aquila di chi nei momenti di tregua riesce persino a vedere dall'alto la propria condizione avvilente e la geometria dei rapporti di forza, e poi lo sguardo del topo, ricacciato al fondo dello scoraggiamento e dell'annientamento fisico. È questa la cosa che impressiona, e per cui si dovrà leggere questo libro: il suo percorso in discesa, da una detenzione ancora sopportabile giù giù verso lo stillicidio di quella marcia finale per Dachau che non finisce mai, con la minaccia costante del colpo alla nuca e nell'esaustione fisica completa: "Quello che so, è che non posso più camminare e cammino". Questo libro che sembra non voler finire mai, con quelle terribili ultime due parti - "La strada"," La fine" - di angoscia senza traguardo, ci dicono questo: che l'indistruttibilità della specie umana si può affermare solo dopo aver attraversato tutta quanta la linea d'aria del male.""

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Robert Antelme

(Corsica 1917 - Parigi 1990) scrittore francese. Deportato nel 1945 a Dachau per la sua attività nella Resistenza, ha scritto uno dei capolavori della letteratura concentrazionaria: La specie umana (L’espèce humaine), pubblicato nel 1947 presso le edizioni Cité universelle, da lui fondate insieme con la moglie Marguerite Duras.

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