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Tra le molte brevi storie dello stalinismo apparse dopo il 1989, questa di Andrea Romano si segnala per il taglio di sintesi interpretativa densa di problemi e al tempo stesso esemplarmente chiara e leggibile. Riesce infatti con successo a delineare i tratti essenziali del fenomeno staliniano, visti nella loro genesi, nel loro divenire e nella loro prolungata sopravvivenza ben oltre la morte del dittatore e la stessa destalinizzazione degli anni chrusceviani.
L'assunto centrale del libro è che lo stalinismo si definisca come "regime della sicurezza e dittatura dello sviluppo": tratti, questi, che l'autore vede "prodursi e disseminarsi nel corpo vivo della Russia" già negli anni compresi tra la dissoluzione del regime zarista e la vittoria bolscevica nella guerra civile. È allora che si forma una classe dirigente che avrebbe mantenuto nel codice genetico della sua cultura politica "una rappresentazione dell'interesse dello Stato di segno isolazionistico e una visione dello sviluppo di carattere industriale e militare". Certo, l'azione dei bolscevichi al potere dopo il 1917, più che rispondere a un piano preordinato, era dominata dall'improvvisazione. E, per la verità, questo procedere a tentoni si inscriveva anche in una prospettiva internazionale che Romano lascia forse troppo sulla sfondo: la diagnosi - si vide solo dopo quanto infondata - di una crisi irreversibile del sistema capitalistico mondiale e dell'imminenza di una rivoluzione europea. Ma è vero che il bolscevismo al potere si trovò subito "accerchiato all'esterno e minacciato all'interno: sostenuto da una parte della società urbana ma osteggiato dalla grande maggioranza della società rurale; al comando dell'amministrazione centrale ma non in grado di esercitare il monopolio della forza attraverso uno Stato in formazione ma ancora privo di legittimazione".
Nell'esaminare le due leve che permisero il consolidamento dello stalinismo "maturo", Romano opportunamente fa una netta distinzione fra la collettivizzazione delle campagne, "che fu essenzialmente un'operazione di ingegneria sociale di segno coercitivo e repressivo", e l'industrializzazione, "che vide l'attiva partecipazione di ampi strati della società sovietica, per lo più di estrazione popolare, attratti sia dalla forza simbolica del progetto di modernizzazione sia dalla prospettiva di una rapida promozione sociale". Quanto al "grande terrore", esso viene ricondotto in modo convincente (sulla scorta delle recenti indagini di Oleg Chlevnjuk ma anche di una tesi che Isaac Deutscher aveva sostenuto fin dal 1949) all'esigenza dell'eliminazione preventiva di una potenziale "quinta colonna" che avrebbe potuto minacciare la compattezza del potere sovietico in caso di guerra: c'è da chiedersi però perché circoscriverne la datazione tra l'estate del 1937 e la fine del 1938, ignorando i precedenti della campagna repressiva scatenata dopo l'assassinio di Kirov e il primo grande processo pubblico di Mosca dell'agosto 1936.
La sintesi interpretativa di Romano ripercorre poi con acutezza e lucidità gli anni della grande guerra patriottica e, dopo la fine vittoriosa di questa, l'occasione che fu perduta di una riconciliazione tra regime e società. Le pur acute pagine finali sull'eredità dello stalinismo, sulla perestrojka e sui dilemmi della Russia contemporanea lasciano invece l'impressione di un eccesso di accelerazione e contengono un giudizio forse ingeneroso su Gorbacëv.
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