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È almeno dalla metà del secolo scorso che il dibattito sul totalitarismo e la comparazione tra le esperienze storiche dei fascismi e dei comunismi è stato al centro di una riflessione metodologica e documentaria che ha coinvolto le scienze umane e in modo particolare la storiografia. Questo dibattito, contrariamente ai giudizi che saltuariamente vi dedica la stampa quotidiana, ha prodotto un livello di approfondimento raramente riscontrabile in analoghe discussioni culturali, favorendo la nascita di un comune senso della storia del XX secolo, in cui la comparazione dei regimi ritenuti totalitari e il confronto tra le esperienze del fascismo e del comunismo sono ormai un dato largamente accettato, soprattutto nelle scuole e nelle università.
La traduzione dell'opera curata da Henry Rousso, frutto del lavoro collettivo che ruota in Francia attorno all'esperienza dell'Institut d'histoire du temps présent, è tra i risultati più recenti e costruttivi di questa felice stagione di studi. Il tentativo, largamente riuscito, è stato quello di porre la comparazione su binari concreti e limitati, con l'occhio rivolto però al più generale dibattito che si è svolto e alle sue implicazioni teoriche e metodologiche. La prima limitazione, ben chiarita nelle sue motivazioni e connessioni, riguarda l'oggetto dell'indagine, circoscritto per quanto riguarda la comparazione storica al nazismo e allo stalinismo. Una seconda parte del volume è infatti dedicata a confrontare il livello della memoria di queste esperienze storiche e di come tale memoria si è stratificata nei paesi che hanno costituito per gran parte del dopoguerra il blocco comunista delle democrazie popolari e che, precedentemente, avevano tragicamente conosciuto il dominio nazista.
La comparazione storica, rifiutando di assolutizzare la banale verità che ogni evento storico ha una sua singolarità e irripetibilità, ritiene che l'analisi delle specificità non debba portare a conclusioni di incomparabilità, perché è soltanto nel confronto con esperienze analoghe che si può giungere a sottolineare l'unicità di alcune di esse. La scelta di Rousso ha tralasciato di analizzare i sistemi totalitari di nazismo e stalinismo e di evidenziarne la medesima appartenenza tipologica (politica e/o ideologica), che è il lavoro svolto prevalentemente dagli studi che hanno posto il totalitarismo al centro della propria attenzione; studi impegnati a cercare, inoltre, gli elementi di novità che proprio i sistemi definiti totalitari avrebbero avuto rispetto alle tirannidi o agli autoritarismi del passato. Rousso ha impostato il lavoro cercando, nella comparazione, una migliore comprensione di ciascuna delle esperienze storiche prese in considerazione. Partendo dall'accettazione sostanziale di una forte somiglianza tra i due sistemi, si è cercato di approfondire la singolarità di ciascuno di essi individuando tre aspetti fondamentali attorno a cui condurre il confronto: la natura del dittatore e il ruolo giocato dal medesimo; le forme della violenza politica; l'adesione o la resistenza, il consenso o il rifiuto al dominio ideologico imposto.
Vi erano altri aspetti, ovviamente, che avrebbero potuto essere presi in considerazione e che lo sono stati in tentativi di comparazione precedentemente compiuti: primi fra tutti quello della contestualizzazione della nascita dei regimi totalitari nell'epoca apertasi con il primo conflitto mondiale o quello delle intenzioni e finalità delle contrapposte ideologie; ma in questo caso "l'obiettivo centrale era di intraprendere una comparazione effettiva trattando con identica attenzione e pari livello di conoscenza e di problematiche i due sistemi considerati, una procedura non così frequente nella storiografia francese". Il dibattito sul ruolo della Grande guerra come apertura, origine, radice del totalitarismo, o invece come semplice contesto di accelerazione e radicalizzazione della conflittualità e della violenza su cui essi sorgono, rinviava a una più ampia contrapposizione interpretativa che avrebbe orientato in un'unica direzione lo sforzo comparativo; così come l'analisi di parallelismi e differenze sul piano dell'ideologia, che del resto sono state abbondantemente esaminate in passato.
Della scelta di una comparazione da compiersi con i caratteri - e i limiti - ricordati, sono stati incaricati due studiosi tra i maggiori nel proprio campo, Philippe Burrin e Nicolas Werth, accomunati da uno sforzo brillantemente compiuto negli ultimi anni di superare le contrapposizioni di "scuola" su cui le storiografie del nazismo e dello stalinismo si erano consolidate: quella tra "intenzionalisti" e "funzionalisti" per quanto riguarda il nazismo e quella tra "totalitari" e "revisionisti" per quel che concerne lo stalinismo. Sulla base di una diseguale massa di studi e di documentazione - ben più ampia per il nazismo, ma largamente incrementata nell'ultimo decennio per lo stalinismo - Burrin e Werth affrontano il medesimo percorso tripartito (dittatore, violenza, società), sorretti da un'analoga ispirazione a spostare gli accenti della ricerca dalla storia politica e ideologica a una storia sociale e culturale di più vasto respiro; ispirazione che, nell'analisi di regimi "caratterizzati da una volontà inedita di influenzare la società e dallo spiegamento di una straordinaria violenza di massa", ha certamente al suo arco frecce migliori rispetto a chi insiste su una valutazione etico-politica, il cui risultato finale sembra essere principalmente quello di classificare in base a nominalismi esasperati e a un uso connotativo crescente di aggettivi peggiorativi e qualitativi. Tutti e tre i saggi che Burrin e Werth dedicano rispettivamente all'analisi del nazismo e dello stalinismo aggiornano il dibattito storiografico e le stesse interpretazioni già avanzate e proposte dagli autori: più noto in Italia Werth per la sua storia sovietica edita dal Mulino (1993; cfr. "L'Indice", 1993, n. 10), meno Burrin, di cui Marietti ha pubblicato il saggio su Hitler e gli ebrei (1994).
É comunque soprattutto nella parte dedicata a "potere e società" (con i contributi: Le forme di autonomia della 'società socialista' e Regime nazista e società tedesca: i molteplici volti dell'accettazione) che la comparazione raggiunge un livello nuovo, pur non presentando conclusioni volutamente comuni e lasciando al lettore il piacere e l'onere della sintesi di questo confronto storiografico. È un'indicazione - come lo sono del resto gli altri saggi sui temi più frequentemente dibattuti delle "logiche di violenza" e su quello, per lo più affrontato nei suoi termini generali che nella concreta disanima storica, della figura, personalità e ruolo dei dittatori - che risponde al desiderio di evitare tanto un livello ideologico di analisi quanto una posizione storico-giudiziaria. Pur consapevoli di non potersi esimere dal giudicare o dal fare riferimento a considerazioni morali, gli autori concordano nella necessità di voler dare un contributo di "comprensione" che non vuole mettersi al servizio di alcuna memoria né cercare di riparare i crimini del passato: compiti questi certo legittimi, ma che esulano dalla professionalità, dal mestiere e dalla stessa missione, se così si può dire, dello storico.
La seconda parte del volume affronta il tema della "memoria" nell'Europa ex comunista, affrontando l'intreccio che le due esperienze, diverse per modi e tempi della loro presenza in Romania, Ungheria, Bulgaria, Polonia e Germania orientale (questi i casi affrontati), hanno sedimentato nella memoria collettiva, ma anche nel dibattito politico, nella ricerca storica e nella organizzazione archivistica che è alla base della riscrittura della storia iniziata dopo il 1989. È questa una parte importante, anche se ancora poco conosciuta, di un lavoro storiografico che, proprio sulla connessione tra sviluppo della memoria collettiva e formazione e diffusione di giudizi storici, ha innestato elementi nuovi per una riflessione che riguarda in primo luogo le interpretazioni della storia del Novecento, ma che ha ricadute non meno importanti sull'insieme della disciplina, tanto sul versante della ricerca quanto su quello della didattica. Il ruolo che memorie divise e storiografie controllate o contraffatte hanno avuto nel creare credenze comuni o nell'impedire consapevolezze diffuse è un tema che è emerso con particolare spessore proprio nelle società uscite a fine secolo dall'esperienza comunista. Ma non è un caso che, negli stessi anni, anche in democrazie consolidate il dibattito sulla memoria e su alcuni momenti cruciali della storia nazionale abbia avuto un impatto fondamentale: sia sulle modalità di formazione di una coscienza collettiva sia sui risultati della ricerca storiografica.
Al termine di questo doppio percorso affrontato con contributi plurimi, Pierre Hassner svolge considerazioni conclusive sul passaggio dello studio del totalitarismo da uno stadio "teologico" a uno stadio "positivo", mentre Krzysztof Pomian pone a confronto il concetto di totalitarismo con quello di regime comunista. Entrambi i saggi, che non pretendono di esaurire né di riassumere o concludere un dibattito destinato fortunatamente a proseguire, sono il segno di quanto sempre più siano l'analisi storica concreta e il comparatismo empirico - sia pure guidati da una bussola metodologica certa - a permettere a una riflessione teorica, classificatoria e concettualizzante, di fare passi avanti rispetto al passato.
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