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Da bambina sognavo di diventare una veterinaria, poi una maestra, poi una giornalista. È trascorso un po’ di tempo, non ho intrapreso nessuna di queste strade, che non ho mai davvero conosciuto da vicino. Ho appena letto un libro con diciassette mini ritratti autobiografici di croniste siciliane che, però, mi illuminano su cosa ho perso e su cosa ho guadagnato, se davvero avessi dato retta a certi desideri effimeri della gioventù, a cose che si dicono senza sapere, senza capire. È un modo per aprire gli occhi, questo volume su una terra che amo, ma da un altro punto di vista. Il sospetto poi è che lo status quo del giornalismo italiano sia così dal nord al sud dell’Italia e che un volume del genere potrebbe apparire anche in Romagna o in Lombardia, in Sardegna o in Calabria.
È la stampa, bellezze! (156 pagine, 14 euro) è il volume pubblicato dalla casa editrice palermitana Leima, scritto a più mani. Non conosco queste giornaliste, donne, ragazze – le guardo nella foto che c’è nelle ultime pagine, una foto realizzata dalla grandissima Letizia Battaglia – da una parte le invidio perché credo che possano incidere concretamente se non sui massimi sistemi, nella vita di ogni giorno, e migliorarla un po’; e le ammiro anche, mi viene naturale, per quanto raccontano, per come lo raccontano, per quanto ci credono, in quello che hanno costruito. Allo stesso tempo le biasimo, vorrei che battessero i pugni, che facessero capire ai loro datori di lavoro che il lavoro è tale se si può fare in determinate condizioni, se viene valorizzato, se è dignitoso, se è retribuito adeguatamente, se non è considerato un semplice meccanismo dell’ingranaggio, magari meccanismo intercambiabile con qualsiasi altro.
Vorrei che qualcuna di loro, per dimostrare quanto amore (non è una parola gettata lì a caso) nutrono per questa professione, fossero perfino disposte ad abbandonarla, a cambiare vita, a sbattere la porta, perché mi sembra che la lotta contro i mulini a vento che in alcuni casi vivono non assomigli più lontanamente a quello che sognavano e a quello che magari, in parte e per un tempo limitato, sono riuscite a mettere in pratica. Il futuro che ingoia il tempo porta con sé sempre meno diritti, più doveri, tagli non solo al portafoglio, ma anche alle speranze. È la crisi, bellezza, è una cantilena di vari comparti dell’economia italiana, ma dovrebbe essere accompagnata dai tentativi di zittirla, questa cantilena. Non le conosco queste donne, ma voglio citarle qui e abbracciarle idealmente: Alessandra Bonaccorsi, Donata Calabrese, Maria Teresa Camarda, Jana Cardinale, Federica Di Gloria, Ambra Drago, Giada Drocker, Sandra Figliuolo, Laura Grimaldi, Giada Lo Porto, Isabella Napoli, Giusi Parisi (che ha anche curato il volume), Paola Pottino, Pierelisa Rizzo, Laura Spanò, Daniela Tornatore e Simonetta Trovato. Giornaliste che lavorano duro, che si sono fatte un nome, che magari non fanno solo queste mestiere, che addirittura l’hanno messo da parte (magari per insegnare al nord). E che hanno scritto pagine che trasudano orgoglio, intraprendenza, fatica e magari un pizzico d’apprensione per il futuro.
I servizi televisivi, gli articoli, i reportage, le trasmissioni di queste donne – nel bene e nel male, nel loro essere o meno di qualità – il costante, quotidiano impegno al servizio di aziende editoriali, emittenti, siti internet dovrebbero parlare da soli. E, invece, le cose non vanno così. Il proverbiale «È la stampa, bellezza», declinato al plurale, non riguarda il direttore di giornale interpretato da Humphrey Bogart ma diciassette precarie, alcune delle quali lavorano da tempo immemorabile, ma non a tempo indeterminato o, visto che ci hanno fatto credere che non è più il tempo di queste vetuste forme contrattuali, almeno con la certezza di poter vivere: figlie di un sistema evidentemente distorto, in cui c’è una larga manovalanza che, all’ora, guadagnerebbe qualcosa in più raccogliendo pomodori. Nulla che, naturalmente, si possa denunciare sulla stampa, nulla su cui pontificare come i giornali fanno su ogni cosa, il sistema fa comodo a tutti, grandi e piccole imprese votate alla stampa, mantengono i costi del lavoro bassissimi (naturalmente ci sono le eccezioni, i direttori, le grandi firme, gli inviati, alcune di queste specie, però, in via d’estinzione) e sembrano avere un bacino infinito, che si autoalimenta d’illusione.
Nessuna delle autrici si piange addosso, nessuna lascia presagire la volontà di alzare bandiera bianca. Raccontano gli esordi, gli aneddoti speciali, risate e lacrime, spiegano le angherie, ripescano anche struggenti episodi personali. Versatili, allegre, malinconiche, colte, capaci di conquistare ribalte nazionali, di trasferirsi per amore o per mestiere. A queste diciassette “sorelle”, di cui purtroppo e per fortuna non sono diventata collega, faccio però qualche domanda, da semplice lettrice di giornali. Chiedo se, con questo status quo, l’informazione non vacilla. Mi chiedo e chiedo loro se la passione, l’entusiasmo, il sacro fuoco, la «malattia» del giornalismo si possano barattare con il rispetto per la propria professionalità e personalità. Se le cose fantastiche che hanno scritto, non cozzino con un precariato che finisce per diventare ricattabilità, debolezza, in qualche modo disonestà. Da quello che ho letto, gran parte di queste giornaliste, per quanto brave con le parole, saranno capaci di rispondere con i fatti. A tutte loro auguro buona vita.
P.S. Queste qua sono così in gamba che hanno destinato parte del ricavato delle vendite all’Airc. Un motivo in più per acquistare e leggere il libro.
Recensione di Micol Treves
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