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Esce, dopo decenni di silenzio dalle ultime, una nuova Storia della letteratura ungherese: le precedenti risalgono agli anni sessanta e sono ormai introvabili: si tratta della storia del Ruzicska del 1963 e di quella di Folco Tempesti del 1969.
Strutturata come raccolta di saggi dei più affermati magiaristi italiani e ungheresi del mondo accademico italiano, si propone come progetto non organico né metodologicamente uniforme, sebbene presenti una rigorosa impostazione cronologica. Oltre ai testi realizzati per l'occasione, l'opera contiene tre saggi di due studiosi oggi scomparsi: Gianpiero Cavaglià e József Szauder.
Mancando un'introduzione all'opera, se si esclude la stringata nota di avvertenze al lettore che apre entrambi i volumi, si può avanzare piuttosto liberamente un'ipotesi di lettura e raccordo fra i brani. Spicca l'impostazione storiografica che offre al lettore una ricostruzione della storia politica e sociale dell'Ungheria oltre che un percorso letterario. Se la contestualizzazione storica risulta sempre importante, sembra diventare imprescindibile nel caso di un'identità controversa come quella ungherese, incerta fin dalle origini, a lungo confuse con quelle dei turchi o degli unni di Attila, poi rintracciate dai linguisti presso le popolazioni ugro-finniche di provenienza uralica. Popolazioni nomadi e pagane che scoprono la letteratura nel momento in cui si sedentarizzano e si convertono al cristianesimo.
In questo originario tradimento sembra celarsi il destino successivo della produzione letteraria magiara, che tende a proliferare nei momenti di crisi e trasformazione identitaria. Nel 1500 la lingua ungherese assume dignità letteraria grazie all'esigenza di diffondere il Protestantesimo, ma in ugual misura la Riforma, i Lumi e gli ideali risorgimentali rappresentano momenti estremamente fecondi. Si pensi a poeti come Vörösmarty e Petöfi che a metà Ottocento cantano il popolo come custode dei valori di patria, lingua e tradizioni, ma anche come depositario di diritti. La sconfitta dei moti rivoluzionari del 1849 e il Compromesso con l'Austria del 1867 svelano però tutta l'artificiosità del mito nazionale. Si fanno evidenti spinte nazionaliste e compromissioni con il potere austriaco, rivendicazioni delle minoranze culturali e ondate di antisemitismo, narrate da giornalisti indipendenti come Endre Ady. Realtà complesse, destinate a esplodere nel XX secolo con le due sconfitte belliche e i drastici ridimensionamenti territoriali.
Il dominio comunista, che cancella o rilegge ogni riferimento storico e locale e arruola gli intellettuali come strumenti di propaganda, sembra infrangere il modello di storia della letteratura come "storia della coscienza nazionale" che la magiarista Beatrice Töttössy mutua da Remo Ceserani. In realtà Töttössy lo ritiene ancora valido sebbene riletto in chiave critica, con l'accortezza di assumere un "doppio orizzonte di lettura" per discernere fra la letteratura di regime e l'universo della clandestinità.
Chiudono l'opera due saggi sul teatro e sulla letteratura ungherese di Transilvania. Denso di attualità quest'ultimo, appare prezioso per una riflessione sulla questione dei diritti delle minoranze.
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