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Il lavoro di Beryl Smalley è noto da tempo ai lettori italiani grazie alla traduzione della seconda edizione inglese del 1952 pubblicata nel 1972 dal Mulino e dalle Edizioni Dehoniane di Bologna; nel 1983 l'autrice licenziò una terza edizione, nella cui prefazione tracciava un bilancio sul significato e sui limiti dell'opera. Quest'edizione esce oggi, nuovamente per le Dehoniane, con una premessa di Gian Luca Potestà, che si sofferma sulla figura originale di Smalley e sul quadro in cui le sue ricerche si inserirono, determinando cambiamenti radicali nell'approccio alla storia degli studi biblici nel medioevo, prima di tutto con il superamento dei confini dell'esegesi fino ad allora considerata dominio incontrastato dell'interpretazione tipologica e allegorica. Contro tale interpretazione, che portava a considerare gli studiosi medievali di Sacre Scritture avversari della "lettera che uccide", Smalley ha dato un rilievo senza precedenti all'interpretazione letterale attraverso l'esaltazione della figura di Andrea di San Vittore a Parigi, individuato come il campione della nuova moda, verso il quale manifesta un entusiasmo quasi incontrollato al punto da dichiarare di sottostare di continuo al "fascino delle sue pagine".
Potestà delinea con acutezza i tratti di una ricercatrice assidua e osservatrice attenta, studiosa anticonformista per i suoi tempi, determinata nel seguire la propria libera vocazione, ma sempre rispettosa dell'insegnamento dei grandi maestri. Dopo l'avvio di studi su Stefano Langton, Smalley concentrò la sua attenzione sulla formazione della Glossa e sulle interpretazioni letterali delle Scritture tra gli ultimi decenni del XII secolo e la prima metà del XIII, sul contributo apportato da dotti e circoli ebraici francesi e inglesi, sulla riscoperta di Aristotele e del naturalismo da esso indotto, in particolare dalla lettura che ne fecero gli studiosi arabi. La sua opera mostrava, all'indomani del secondo conflitto mondiale, due importanti novità nella visione e nel metodo. Innanzi tutto, il medioevo era considerato per la prima volta come un mondo di specializzazione, di erudizione teso alla ricerca di soluzioni sempre più convincenti, caratterizzato da un uso apertissimo della filologia e della storia; in secondo luogo, pur con la coscienza dell'impossibilità di tracciare un quadro completo, l'autrice ricorre in modo continuo alla citazione dai manoscritti, con l'entusiasmo di chi sa di scandagliare un territorio per grandi versi non ancora dissodato e, nello stesso tempo, di instaurare un dialogo vivo con le menti più vivaci del passato.
Il rinvio ai codici è sempre di prima mano, grazie alla conoscenza diretta (vastissima per l'epoca) dei fondi manoscritti delle principali biblioteche europee e della University Library di Chicago, e guidato da una curiosità senza pari per tutto quel che compare sulla pagina, dalle varianti del testo alle glosse e ai commenti, dall'intensità della scrittura al colore delle iniziali capilettera. D'altro canto, lo studio dedicato a Erberto di Bosham e confluito nel capitolo quarto della seconda edizione aveva preso l'avvio proprio dalla scoperta, effettuata da Neil R. Ker, di un codice della St. Paul's Cathedral Library di Londra (ms. B. 13). I manoscritti sono citati non solo in quanto portatori di testo, ma anche perché rendono visibile l'impegno dei maestri della sacra pagina e testimoniano la durata, talvolta insospettabile, di tradizioni e di interessi. Perciò, per comprendere l'ampiezza dell'illustrazione di Simone di Hinton, Smalley esorta a "tener conto che la sua postilla su Matteo occupa 173 fogli di un codice di cm 32 x 23 ca., sebbene la postilla sia incompleta, poiché mancano i prologhi e il commento ai primi cinque capitoli". L'indagine sulla presenza di codici ebraici in biblioteche cristiane e sulle traduzioni del Salterio ebraico è interamente condotta sull'esame diretto delle testimonianze manoscritte. Talora l'autrice esprime giudizi da esperta paleografa e anticipa tematiche di grande attualità, ad esempio nell'asserire che i glossatori di tre manoscritti contenenti Salteri ebraici "hanno scritture più da studiosi che da professionisti" e che il testo ebraico è opera di copisti i quali, "benché scrivessero bene, non osservavano le regole tecniche della professione giudaica altamente specializzata".
Lo schema proposto da Smalley che, dopo i due capitoli iniziali relativamente brevi su I Padri e le Scuole monastiche e cattedrali, concentra l'attenzione sui Vittorini, Andrea di San Vittore, I Maestri della «Sacra Pagina»: il Comestore, il Cantore e Stefano Langhton, per chiudere con I Frati ha avuto enorme fortuna, al punto da essere riproposto sostanzialmente invariato, nella scansione cronologica e nella successione degli autori trattati, da chi dopo di lei si è occupato di esegesi medievale (si pensi, solo per fare due esempi, alla miscellanea curata da Giuseppe Cremascoli e Claudio Leonardi e al libro di Lesley Smith sui maestri della sacra pagina).
Certo, ripubblicare un'opera ormai datata e giunta alla sua terza edizione può presentare dei rischi. Il principale, soprattutto considerando che la presente è un'edizione economica giustamente indirizzata a un pubblico universitario, è di annullare la prospettiva storiografica in un ambito di studi che hanno progredito di molto negli ultimi cinquant'anni e indurre perciò in errore un eventuale lettore inesperto: ciò non accade grazie alla premessadi Potestà e al suo ricchissimo apparato di riferimenti bibliografici. Ma il motivo che più di ogni altro rende valida la riedizione del volume di Smalley va ricercato, a mio giudizio, nella splendida lezione che viene ai futuri ricercatori dal suo modo di fare ricerca e dalla sua capacità di porsi con leggerezza all'interno del dibattito culturale. Colpisce l'atteggiamento di grande freschezza e disponibilità che contraddistingue la studiosa di rango, vissuto da uno spirito libero e ironico, quasi in una sorta di scommessa che è tipica del ricercatore puro ("chi viaggia tende a scoprire quello che cerca"), ma anche di grande umiltà, come nel riconoscere, nella prefazionealla terza edizione, di avere in precedenza liquidato troppo disinvoltamente Gioacchino da Fiore e il gioachinismo come "'un attacco di demenza senile' dell'esposizione spirituale". Ma è emblematica, in questo senso, tutta una serie di incisi che, soprattutto nella parte relativa ai frati predicatori e minori, fanno da contrappunto alla trama del racconto e denotano uno spirito di ricerca in grado di travalicare interessi di scuola e contrapposizioni ideologiche, mostrando rara capacità di distacco perfino dalle proprie idee.
Paolo Cherubini
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