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C'è davvero da lasciarsi disarmare, via via che si procede nella lettura di questo libro, c'è da arrendersi alla grazia sicura e alla leggerezza perentoria che lo costituisce; e c'è da osservare che si tratta di un libro autenticamente "minore" in senso etimologico: non in quanto comparabile con altro più ingombrante e affermativo, ma in quanto nato in una sua classica dimensione per così dire "tascabile" per virtù di immaterialità; e come tale vivace, guizzante oggetto prêt-à-lire, intenso cibo di conforto e micropiatto di varietà e attrattive. Se il laboratorio Italia è, in questo genere di cose, una continua sorpresa traspirante da un caos discontinuo ed eccitato, questo libro ci dimostra come possa esserci chi agli orli, su salda riva asciutta e ben radicata, nasca a suo modo classico, svogliatamente sicuro e distrattamente infallibile. La grazia di Elena Salibra è proprio in quel non credere nella centralità della poesia e contemporaneamente mettere al riparo da rischi quella sua superba vocazione fonica, quell'ondoso fervore di ritmo e suono. Questo libro, nella sua fisicità misurata sul quotidiano e nella sua esuberanza pensosa e selettiva (e in questo presta l'occasione all'ossimoro come sistema di giudizio), riconcilia con il mondo: perché il mondo di Elena è il nostro stesso mondo; solo che lei ne sfoglia la pagina del tetro e la volta sul tollerabile, illumina il tollerabile e ne appare la misura. Questa misura, sommessa e pressoché inavvertibile, è una condizione che da noi pressoché nessuno osa affrontare, una condizione forse temuta, forse evitata come troppo poco "alta": parlo propriamente della gioia. Genoard, come informa anche la bella introduzione di Marco Santagata, è un paradiso che non esiste più, un luogo della memoria cancellato dalla storia, a metà tra luogo simbolico e luogo mentale: "tuffarmi con voi due in quel fondale / d'Ognina. / i ricci-femmina attaccati / alla scogliera aspettano la luna / piena. là dove s'inarca la roccia / al passaggio del vento ". Ogni esperienza della gioia può dunque essere un segno di Genoard,l'eternità dell'istante celebrata nel gesto feriale e ripetuto, e contemporaneamente la smemoratezza che cancella il trauma della ripetizione e torna a rendere felici. Giorgio Luzzi
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