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Un cavallo di legno - un vecchio attrezzo ginnico di terza mano, mangiato dai topi - un gruppo di reclute addormentate, un cortile di caserma dove razzolano impunemente le galline e un tenente dai baffi impomatati. Pochi ingredienti scelti bastano a costruire questo racconto breve di Juan Marsé, un piccolo apologo grottesco, nato (ce lo racconta l'autore nella nota introduttiva) prima come storiella per divertire gli amici nel dopopranzo, poi diventato un testo scritto. Uno scenario desolante - un avamposto solitario nei dintorni di Ceuta, nell'Africa spagnola degli anni cinquanta - fa da cornice ai tentativi dell'ostinato tenente Bravo che, di fronte ai suoi soldati, cerca invano di saltare il cavallo da ginnastica. Prova e riprova, finirà col farsi male. Tanto elegante e sicuro di sé da sfiorare il fastidio, il bel tenentino non potrà che arrendersi di fronte al decrepito attrezzo da palestra: buffa metafora di un idealismo soltanto formale che non fa i conti con la realtà e di una certa logica paradossale e vuota, propria dei regimi militari. Il tutto abilmente messo in ridicolo da Marsé - pluripremiato narratore catalano, attivo dagli anni sessanta - che si diverte a circondare i suoi eroi sconclusionati di asini, maiali, fantasticherie di nonne campagnole e prostitute dalla pelle scura. Il racconto (che nell'edizione originale spagnola del 1987 dava il titolo a una raccolta) qui è accompagnato da un'altra piccola storia, Un'automobile d'acciaio inesorabile, tradotta da Fiammetta Biancatelli, e da una postfazione di Antonio Melis.
Giulia Ziino
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