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è difficile negare che Tito e Togliatti rappresentino le personalità di più alta statura politica nella storia dei comunismi europei dopo la seconda guerra mondiale. Molto diversi per formazione culturale gusti e temperamento condividono tuttavia prima l'apprendistato alla dura scuola del Comintern e poi dopo il 1944 lungo un travagliato cammino comunque condizionato dall'essere l'uno il capo di un partito al potere l'altro il leader di un partito quasi sempre all'opposizione il perseguimento di una via al socialismo non solo diversa ma in misura crescente autonoma dalla tutela dell'Unione Sovietica. Proprio il nesso nazionale-internazionale – una categoria che sempre più si rivela cruciale nell'interpretazione della politica europea del XX secolo – è la chiave di lettura di cui si serve Galeazzi nel suo saggio acuto e originale: il quale si avvale di molta nuova documentazione (il cosiddetto Fondo Mosca dell'archivio del Pci l'archivio del ministero degli Esteri italiano mentre forzatamente più limitato è il ricorso delle fonti jugoslave praticamente ora inaccessibili).
Più che l'intreccio di due biografie parallele il libro è una storia comparata del ruolo dei due dirigenti nel movimento comunista internazionale. Una storia che comincia nel segno del conflitto: non tanto e non solo sulla pur centrale questione di Trieste quanto per una visione diversa dello scenario apertosi dopo il 1945: laddove Tito è incline a sfruttare fino in fondo la vittoria sulla Germania e già prima del 1947 appare convinto che mantenere alta la tensione internazionale corrisponda agli interessi del nascente blocco socialista e del suo stato-guida di conquistare migliori posizioni in un successivo scontro con il mondo capitalistico Togliatti è fautore di una prosecuzione dell'alleanza antifascista oltre la fine del conflitto tesa a garantire un assetto "aperto" delle sfere d'influenza e a costruire in questo quadro le premesse della lotta politica per il socialismo.
Su questo contrasto strategico si innesta un altro fattore di tensione: proprio l'importanza che entrambi i leader attribuiscono dentro la già richiamata interrelazione nazionale-internazionale al primo termine del binomio li porta a confrontarsi con crescente durezza sulla controversia di confine fra Italia e Jugoslavia. Galeazzi che conosce assai bene la questione per averle dedicato negli ultimi vent'anni diversi lavori non idealizza la condotta di Togliatti ma mette in luce le sue ambiguità sul nodo dell'appartenenza statale di Trieste ancora irrisolte fino alla metà del 1945; dimostra però che dopo quella data il leader comunista si batte a fondo per non sacrificare i valori nazionali sull'altare del legame di ferro con l'Urss manovrando con pazienza a tutto campo. Interessantissima è la sua lunga e dura lettera del 21 aprile 1946 a Thorez in cui la tesi dell'italianità di Trieste è sostenuta con assoluta fermezza. Detto per inciso questo è solo uno dei momenti di acuto contrasto tra il partito italiano e quello francese che il libro mette in luce confermando – archivi alla mano – che le loro relazioni conoscono diversi periodi di burrasca al centro dei quali vi è spesso in modi specularmente opposti il rapporto con il partito comunista jugoslavo.
Dopo la rottura dei rapporti fra quest'ultimo e il Pcus nel 1948 la prospettiva della guerra fredda e la scelta aprioristica di schierarsi a fianco dell'Urss impedisce a Togliatti di valutare adeguatamente la strategia di Tito nella politica estera protesa a evitare l'assorbimento in uno dei due blocchi contrapposti. La sua condanna dell'eresia titina è assai dura e apparentemente senza riserve: anche se è significativo che l'ambasciatore jugoslavo a Roma informi nel 1949 i suoi superiori che subito dopo la risoluzione di condanna del Cominform il Pci aveva tentato di fare da mediatore fra Mosca e Belgrado; e anche che quando Valdo Magnani di quell'eresia ritenuto il propagatore in Italia viene espulso nel 1951 dal partito Togliatti stando a questa fonte esiti ad associarsi al giudizio su di lui come traditore richiamando – e anche questo è molto interessante – il caso di Silone che aveva abbandonato il partito ormai da vent'anni e tuttavia non era diventato né un prezzolato della borghesia né un fascista ma è pur sempre rimasto un socialista. Certo è possibile che si tratti di una manifestazione della irrisolta doppiezza del leader del Pci: del resto la vicenda parallela dei due partiti nel periodo 1948-1955 è tutta all'insegna del paradosso: il partito jugoslavo conduce la lotta contro lo stalinismo con metodi stalinisti mentre lo stalinista partito italiano specie dopo il rifiuto del suo capo di assumere la guida del Cominform è protagonista di un'ininterrotta battaglia anche e soprattutto sul terreno parlamentare per la difesa della costituzione e l'allargamento dei diritti di cittadinanza sociale.
Il libro di Galeazzi dipana poi con acribia la trama dei rapporti fra i due partiti dopo la ripresa dei loro rapporti nel 1956. Senza dubbio pur tra alti e bassi si verifica un riavvicinamento e si manifesta una convergenza su molti punti cruciali: analoga è l'insoddisfazione di Tito e di Togliatti per le spiegazioni dello stalinismo imperniate sul culto della personalità non dissimile è il giudizio sull'intervento sovietico in Ungheria giudicato da entrambi una dura necessità comune anche se espressa in forme più o meno sfumate la diffidenza per le megaconferenze del comunismo mondiale suscettibili di trasformarsi in tribunali contro l'uno o l'altro deviazionismo capaci di sbarrare la strada al perseguimento delle vie nazionali al socialismo.
Un altro nodo che l'autore pone opportunamente al centro della sua ricostruzione è la categoria dell'interdipendenza. Rispetto al quale scrive Galeazzi un dato accomunava i due statisti: la percezione che i problemi della pace e della guerra si ponevano in forma inedita (…) e la minaccia atomica rendeva inaccettabile l'equilibrio del terrore imponendo nuove vie per scongiurare i rischi che incombevano sull'umanità. E se per l'Urss le chiavi della pace e della guerra dovevano restare nelle mani delle superpotenze laddove l'iniziativa degli stati minori era vista come un fastidio come un'inammissibile violazione di un bipolarismo stabile pur nella sua conflittualità la posizione di Togliatti e di Tito pur nella diversità dei ruoli che ricoprivano era dettata in larga misura dalla consapevolezza di trovarsi di fronte a un mondo interdipendente nel quale i blocchi avevano un carattere contingente rispetto alle prospettive dell'umanità.
Particolarmente significativa da questo punto di vista è l'evoluzione della posizione del Pci: da una considerazione dei movimenti di liberazione nazionali che in conformità alla teoria di Zdanov li colloca totalmente all'interno del campo socialista si passa a una sempre maggiore attenzione per il ruolo dei paesi non allineati e al riconoscimento che un movimento rivoluzionario può spesso essere guidato da un partito non comunista. Forse la miscela di diplomazia e di innovazione di speranza nell'avvenire e di senso del limite che specie nell'ultima fase della sua vita caratterizza Togliatti ma che non è estranea nemmeno a Tito potrebbe ancora essere una risorsa da spendere nell'attuale oscuro orizzonte internazionale.
Aldo Agosti
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