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Ritorna il libro piu celebre di RolandBarthes, preceduto dalle Variazionisut-fa scrittura, mai tradotte in Italia, e daun saggio introduttivo di Carlo Ossola.
Di che cosa tratta Il piacere del testo ? Delle emozioni che il testo suscita nel lettore. Osserva giustamente Barthes che se alla domanda « cosa conosciamo del/dal testo ?» la semiologia è riuscita a dare risposte convincenti, la stessa cosa non è però accaduta per l’altra domanda fondamentale: «che cosa godiamo nel testo ?» Si tratta dunque, nelle parole dello stesso Barthes, di «riaffermare il piacere del testo contro l’indifferenza scientifica e il puritanesimo dell’analisi sociologica, contro l’appiattimento della letteratura a un suo semplice apprezzamento». Ma come rispondere, concretamente, a quest’ultima domanda ? poiche il piacere è, per sua stessa natura, inesprimibile, un testo sul piacere del leggere non potrà che assumere la forma di una successione di frammenti, in una sorta di messa in scena del problema che rigetta dal principio la scientificità dell’analisi testuale. Contemporanee al Piacere del testo , le Variazioni sulla scrittura , originariamente commissionate per un volume dell’Istituto Accademico di Roma, rivelano una perfetta solidarietà di concezione e struttura con quel saggio. Come sottolinea Carlo Ossola, ciò che Barthes aveva felicemente concepito «era un unico saggio, una sola movenza», che va dal lavoro di incisione della materia attraverso lo scrivere alla libera fruizione del testo.
Ogni scienza definisce (o circoscrive) il proprio oggetto mediante tratti positivi ma anche con procedure di esclusione e di rifiuto. La linguistica moderna considera non pertinenti gli aspetti sostanziali, o materiali, del linguaggio, e si concentra sul piano della forma (relazioni, strutture, combinazioni, ecc.). Ma a questa esclusione, afferma Barthes, bisogna aggiungere la negazione di quegli spazi in cui un testo esprime la propria deriva pulsionale, la spinta al piacere o al godimento. È dunque la materia del linguaggio a parlare nei due testi che Barthes scrive negli anni 1971-73, e che l'editore Einaudi ha voluto riunire in un volume curato e introdotto da Carlo Ossola: la materia dei segni come gesto che si configura in molteplici sistemi di tracce, di cui Barthes profila la storia monumentale (
recensioni di Bottiroli, G. L'Indice del 1999, n. 07
Alla scienza del linguaggio Barthes oppone "la scienza dei godimenti del linguaggio", cioè la scrittura, che è una pratica (un insieme di pratiche) e non un metalinguaggio. Infatti la scrittura genera testi, ciascuno dei quali è anche il miglior commento a se stesso: ogni testo è un esempio di ars erotica, ed è un trattato di questa arte (o "scienza"). Bisogna però saper distinguere - e Barthes si cimenta di continuo con questa difficile e necessaria distinzione - tra godimento e piacere. L'assenza di un termine che li racchiuda entrambi favorisce l'ambiguità: in quanto coestensivo ma anche contrapposto al godimento, il plaisir riesce sovente a usurparne il posto, e ad allontanarlo dalla scena (come si verifica anche nel titolo del 1973). Tuttavia il piacere è appagamento mentre la jouissance è mancamento, perdita. Il piacere del testo è l'euforia, la soddisfazione, l'agio, mentre il godimento è la scossa: nel godimento, il soggetto perde la consistenza del suo Io.
Se il piacere può nascondere e inaridire le fonti del godimento, ciò accade in quanto esso è dicibile, in quanto occupa dei luoghi: invece il godimento è in-dicibile e atopos. Con la nozione di "atopia" si inizia a scorgere una direzione di ricerca che si allontana dal pathos energetista della jouissance, e da una metaforizzazione piuttosto meccanica e sterile (la scrittura come kamasutra, l'erotismo delle intermittenze, ecc.). Poiché il non-luogo del godimento non si colloca docilmente sotto il grande mito semiologico del "versus" (bianco versus nero), poiché il non-luogo non si oppone simmetricamente, o dialetticamente, al luogo, ma lo attraversa e lo sovverte, il lettore viene invitato a riflettere sulle strategie di sovversione.
Da un lato, queste strategie tornano a confluire nel pathos anarchico: si enfatizza il godimento in quanto ribelle a ogni istituzione (politica, universitaria, psicoanalitica), e in quanto sfugge a ogni canalizzazione in termini di conflitto. La jouissance è infrazione della Norma. Dall'altro lato, la necessità di distinguere le pratiche di godimento da quelle di piacere spinge Barthes a compiere tutta una serie di osservazioni, che non sembrano essere state adeguatamente raccolte. Cerchiamo di comprenderne i motivi.
All'inizio degli anni settanta il clima culturale è quanto mai favorevole alla proliferazione dei discorsi "desideranti": sullo sfondo, la grande mutazione della vita quotidiana inaugurata nel decennio precedente; in campo teorico, i consensi anche aberranti ricevuti dal pensiero di Lacan, l'eclettismo di Julia Kristeva, l'eresia dell'Anti-Edipo. Così il testo del 1973 è prima di tutto un pamphlet contro "la mitologia che tende a farci credere che il piacere (e particolarmente il piacere del testo) sia un'idea di destra". Alla sinistra che si riconosce asceticamente nel metodo, nell'impegno, nella conoscenza, nella solidarietà, Barthes propone qualcosa che è insieme rivoluzionario e asociale: il godimento. In termini meno enfatici, e meno datati, diremo che il suo discorso s'ispira all'idea che la conoscenza sia in sé deliziosa.
Se, reiterando più volte queste affermazioni, Barthes non s'impegnasse nella distinzione tra piacere e godimento, il suo resterebbe semplicemente un pamphlet, la proposta di un nuovo stereotipo che rovescia il precedente, o ne restringe i territori. Barthes non ignora la possibilità di un accordo strutturale tra forme contestanti e forme contestate; e tuttavia, si potrebbe obiettare, non si sfugge alla logica del rovesciabile con una mera presa di coscienza. Perciò gli spunti più preziosi del suo discorso sono, ancora oggi, quelli in cui Barthes introduce la distinzione piacere/godimento nelle dinamiche testuali e nella sfera della ricezione.
Limitiamoci a qualche cenno. La necessità di distinguere tra almeno due regimi di lettura: quello che va direttamente alle articolazioni del testo, e ignora i giochi della lingua ("se leggo Verne, vado svelto": perdo qualcosa del discorso, senza alcuna vera perdita); e la lettura che pesa e aderisce al testo, che affonda nella sua integrità e materialità per ritrovare la leggerezza dell'atopia, e scivola infine nella perdita della propria soggettività piena. Il suggerimento di una retorica non tassonomica e descrittiva, ma in grado di ospitare le lacerazioni del desiderio: le rotture di costruzione (anacoluti) e le rotture di subordinazione (asindeti) sono le tracce di fratture più profonde; è tutta l'enunciazione che "va a pezzi". L'attenzione sempre viva al problema degli stereotipi, non identificati semplicemente con la ripetizione discorsiva, e rispetto a cui non basta aggrapparsi al "nuovo": "nove volte su dieci il nuovo è solo lo stereotipo della novità". Infine, il rifiuto oggi inattuale della cultura di massa, che Barthes aveva saputo descrivere senza alcun snobismo plebeo sin dalle Mythologies (1956; Miti d'oggi, Einaudi, 1974): "nessuna significanza (nessun godimento) si può produrre, ne sono convinto, in una cultura di massa". La jouissance non è il facile edonismo delle contaminazioni, delle mescolanze deboli: è lacerazione, più che mescolanza.
L'auspicio maggiore di Barthes non è forse una storia della scrittura quanto la necessità di scrivere "la triste, stupida, tragica storia di tutti i piaceri a cui le società obiettano o rinunciano": una storia atopica, asociale e in una certa misura impossibile.
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