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Pare che una volta Albert Einstein si sia chiesto: "Perché c'è il mondo e non il nulla?" Se lo chiedeva da scienziato sapendo però che l'unico appiglio per una risposta poteva trovare luogo in uno spazio altro, non percepito fisicamente dall'uomo, lo spazio dell'anima che coltiva la fede nella trascendenza, ovvero lo spazio della coscienza di sé che interrogandosi immagina questo sé, dotato di pensiero, come "frutto" infinitesimale di una impalpabile Essenza appartenente ad una dimensione sconosciuta agli umani. La dimensione dell'impalpabile pensiero, sede della volontà creatrice. Una Essenza che implicitamente giustifica l'esistenza del mondo, provvista di armonia, filtro estetico dell'universo geneticamente ereditato dall'uomo. Fedele al dettato dantesco che vede la ragione di ciò nell'"Amor che move il Sole e l'altre stelle" il poeta ripercorre l'umana avventura intrisa di inquietudine con versi che alternano domande a convinzioni. Una essenza vitale, la cui estraniazione temporanea causata dalla assorbente e assordante rumorosità del mondo, a cui è dedita l'umanità, prosciuga il corpo dai suoi benefici influssi. Ma, in subordine, è la poesia la seconda evocazione, balsamo alle ulcere del mondo, un senso aggiunto ai canonici cinque che consente di esplorare il mondo col filtro estetico della fragile bellezza che, contemporaneamente, coglie la precarietà del solido e la solidità del tenue. E tuttavia, questa di Sandro Angelucci, è una poesia non indenne da titubanze, facendo, queste ultime, capolino dietro la nube che nasconde il superiore disegno ma gli sprazzi di luce che il poeta cattura alleviano dall'ansia che talvolta sosta in agguato. "Così - come scriveva, nel 1918, Hermann Hesse - attraverso l'anima nostra / muta mille volte in pena e gioia / la luce di Dio, agisce e crea, / e noi la celebriamo come sole". Conclusione a cui l'indagine di Angelucci, prossimo alla meta, aspira di arrivare con altrettanta limpidezza.
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