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Titolo: LA VITA BREVE - Morte, Resurrezione, Immportalità - Gentiloni Filippo, Rossana Rossanda - Pratiche editrice, Nuovi saggi, Pratiche editrice, Pratiche editrice, - 1996
recensione di Coletti, V., L'Indice 1997, n. 1
Ecco un libro intelligente e interessante. Due mani diverse, Rossana Rossanda e Filippo Gentiloni, due modi di riflettere su uno dei temi più antichi e oggi più unanimemente rimossi: la morte. La Rossanda lo fa con una scrittura nitidissima e attraverso un racconto, preceduto da una breve, impeccabile introduzione. Gentiloni in due saggi più tortuosi e complicati, ma non meno coinvolgenti e importanti.
La Rossanda parla della morte riscrivendo la favola antica dell'uomo che aveva ottenuto l'immortalità. Amar attraversa i secoli, per sfidare il Dio che aveva immesso la morte nel creato. Vuole difendere gli uomini se non dal male estremo, almeno dal suo precipitare; vuole contendere il tempo alla morte, battersi per la vita. Ma gli altri, intorno a lui, muoiono. Magari più tardi, dopo una vita più lunga, ma muoiono. Lui no. Lui resta in vita, da otto secoli e più. E la sua immortalità è una condanna, la solitudine, il vuoto degli affetti. Arriva poi il giorno in cui gli uomini ottengono con la scienza quell'immortalità personale che Amar ebbe per capriccio di Dio. E allora è l'incubo; nulla si può più comunicare; sono morti, con la morte, i sentimenti, gli affetti, le trepidazioni che fanno la vita.
Solo un brutto sogno per fortuna. Perché neanche Amar può fare a meno della morte; scrive infatti la Rossanda nell'introduzione, "la materia di cui è fatta la vita è il tempo che fugge, il suo sangue è la nostalgia d'un sempre che non ci appartiene". C'è tutta la miglior Rossanda in questo racconto, che, se non fosse per qualche sbavatura, qualche frettolosità stilistica, certo dovute all'invadenza, all'ansia dell'obiettivo, potrebbe essere definito davvero un piccolo capolavoro. C'è naturalmente pure l'instancabile pietas dell'intellettuale di estrema sinistra, sempre pronto ad assolvere l'uomo o almeno a giustificarlo (la società, la storia, ora persino la condizione umana stessa...) e che è sempre più difficile oggi, di fronte allo strapotere del male deliberato, accettare, condividere. Ma c'è anche una finezza impareggiabile nel legare in modo ancora oggi tanto suggestivo i due fratelli leopardiani di amore e morte: "Aiutami. Troverò il modo di morire" sono le parole di Amar a chiusura del racconto. E sono una struggente dichiarazione d'amore, una delicatissima invocazione di aiuto; la dimostrazione che l'unico antidoto alla morte è indissolubilmente legato a essa, al senso di precarietà e del limite che essa immette in ognuno di noi.
Nel secondo dei suoi saggi Gentiloni ripropone il tema della coscienza della finitezza, del limite, e fa vedere come il cristianesimo, religione nata da una morte, se liberato dall'involucro secolarizzato in cui si è progressivamente chiuso, possa essere ancora capace di dare, di fare intravedere una luce, di accendere una speranza dietro l'accettazione del buio tragico che chiude la vita. E nel primo saggio affronta la paura della morte nella società moderna, che spesso, con le sue perfezionate tecniche diagnostiche, annuncia da lontano all'individuo la propria fine e poi lo lascia solo, spaventato e cupo, davanti all'ultimo passo. In una cultura del possesso, dell'assolutizzazione dell'io, dell'estraneità all'altro, non c'è infatti modo di accettare la propria fine, non si sa ammettere che il successo, la salute, la fittizia immortalità di chi ha cancellato illusoriamente la morte dall'orizzonte della vita.
A questo libro si potrebbero affiancare ovviamente molte considerazioni. Mi limiterò a farne una. L'impossibilità di pensare la morte è anche dovuta, come ha scritto Gentiloni, all'incapacità di elaborare immagini, mappe, schemi del dopomorte. Ma vorrei ricordare che, nell'età in cui persino le religioni rivelate hanno spostato sull'aldiqua il loro centro di interesse, disseccando, spolpando le cose ultime, c'è però stato un potente tentativo di ficcare ancora una volta lo sguardo nel regno dei morti, di spiare l'oltretempo, di riannodare il filo che ci lega al dopovita. Lo ha fatto l'arte, che ha tradotto in straordinarie immagini (si pensi al "Settimo sigillo" o al "Posto delle fragole" di Bergman, alle poesie di Eliot o di Montale, a "Dissipatio" H.G. di Morselli) il vuoto angosciante di un oltrevita, da cui sono stati cancellati i sogni e le illusioni che per secoli lo avevano gremito.
Nell'età in cui la morte è stata rimossa dietro i rassicuranti (per i vivi) paraventi degli ospedali e dietro lo schermo mistificante della televisione, l'arte non ha cessato di pensarla, di cercare di dirla, con un'ostinazione ben superiore a quella stessa delle religioni sempre più mondanizzate. E non è un caso che la grande letteratura sia tornata a disegnare un oltretomba simile all'Ade pagano, di Omero e di Virgilio, al cupo regno delle ombre senza promessa di resurrezione. In quel buco nero della vita, nella ressa dei morti senza ricordo, la poesia non ha solo rinnovato un'immagine dell'aldilà, ma ha anche rappresentato una delle più grandi perdite dell'aldiqua: la capacità, e sia pure anche il sogno, di visitare l'universo del dopovita, di dialogare con i morti, di dare figura al sogno dell'immortalità, speranza alla terribile certezza della fine.
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