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recensione di Tranfaglia, N., L'Indice 1997, n. 2
"Quante volte - scrive Gherardo Colombo in questo "Vizio della memoria" che è insieme un autoritratto intellettuale, un diario della crisi italiana, una sorta di rapida autobiografia - mi aveva preso la tentazione di andarmene per parlare, per essere libero di rispondere a tutti gli attacchi che ci erano stati e ci venivano rivolti, per cercare di restaurare la verità delle cose dagli stravolgimenti che quotidianamente subiva! E rivendicare la dignità della professione, il rispetto dell'indipendenza coltivato in ogni atto del mio lavoro, costantemente aggrediti io e gli altri, con una continuità e un'arroganza impressionanti (...) Tutte le volte, poi, la tentazione svaniva (...) e riprendeva il sopravvento la coerenza nei confronti del lavoro, la convinzione che spazio per render giustizia ne esisteva ancora e che la cosa più importante era andare avanti a dimostrare che, per quanto faticosamente, la legge poteva essere applicata nei confronti di tutti".
In questa pagina, che è di centrale importanza nel discorso del magistrato milanese, è racchiuso con grande limpidezza lo stato d'animo di tutti quegli italiani che, lavorando per lo Stato a differenti livelli e in differenti settori, si sentono ostacolati piuttosto che aiutati nello svolgere fino in fondo il proprio compito e applicare la legge: un'amarezza condivisa da molti (anche da chi scrive) ma che, quando parliamo di amministrazione della giustizia, assume caratteri di particolare gravità per le conseguenze che l'opera del giudice ha nella pubblica opinione e nella società, in particolare quando davanti al giudice medesimo vanno questioni e personaggi che appartengono alla classe dirigente del paese.
Ed è quello che per Colombo è avvenuto in tre circostanze di notevole importanza per la nostra storia. Prima con la scoperta della loggia P2 di Licio Gelli nel 1981, con il ritrovamento nella villa di Castiglion Fibocchi, nell'Aretino, della lista degli affiliati alla loggia segreta di cui facevano parte ministri, segretari di partiti di governo, parlamentari, grandi imprenditori, direttori di quotidiani, generali, vertici dei servizi segreti.
Poi con l'affare dei fondi neri dell'Iri, che coinvolgeva dirigenti pubblici corrotti ma soprattutto le casse dei partiti, dove gli interessi su migliaia di miliardi erano in gran parte finiti grazie a una serie infinita di giri e di occulti trasferimenti.
Infine con l'inchiesta iniziata quattro anni fa a Milano dal pool composto dal procuratore Borrelli, dall'aggiunto D'Ambrosio e dai giudici Di Pietro, Colombo e Davigo che ha condotto alla scoperta di una corruzione diffusa capillarmente nel paese che vedeva seduti allo stesso tavolo i politici, gli imprenditori e i finanzieri, tutti compartecipi di un "sistema della corruzione" che vuotava le casse dello Stato a vantaggio dei privati, sperperava il danaro dei contribuenti onesti e conduceva il paese verso una rovina inevitabile, e verso un'assoluta inefficienza, che trascorreva fatalmente dal pubblico al privato e viceversa.
Già nel 1981, quindici anni fa, Colombo aveva avuto modo, attraverso l'indagine sulla P2, di rendersi conto della capillarità di quel sistema, della difficoltà estrema di rompere quel muro di gomma che gli uomini di governo subito opposero al ritrovamento della lista di Castiglion Fibocchi. Nel caso della P2, come in quello sui fondi neri, il pentapartito si oppose con durezza all'inchiesta, ottenendo il trasferimento a Roma, nel "porto delle nebbie," altrimenti chiamata procura della repubblica, del processo istruito a Milano: e in tutti e due i casi la magistratura romana, quella più vicina al potere, concluse con un vero insabbiamento un procedimento ricco di riscontri e di piste di approfondimento. L'autore è persuaso, e lo siamo anche noi, che se nel 1981 si fosse andato a fondo non si sarebbe atteso un altro decennio per affondare, almeno in parte, il bisturi nel tessuto malato di questo paese.
Il libro di Colombo dedica molte pagine alle inchieste, ai personaggi che le conducono (il ritratto di Antonio Di Pietro che ne scaturisce appare sobrio ma pieno di utili indicazioni per capire il personaggio molisano), al modo di agire dei politici.
Straordinario è il racconto dell'incontro a Roma nel 1981 con l'allora presidente del Consiglio, il democristiano Forlani, che sembra nello stesso tempo incredulo ma già almeno consapevole di quel che sta succedendo e si tiene per ben due mesi le liste chiuse nei cassetti prima di essere costretto a diffonderle e a dare le dimissioni, ma in molte altre pagine si avverte l'eco e l'atmosfera di un paese e soprattutto di una classe dirigente che non vuole fare l'esame di coscienza necessario e perciò scantona, traccheggia, cerca di imbrogliare le carte o addirittura di prendersela con i giudici che indagano e arrivano troppo vicini alla verità.
Ma l'amarezza più grande nel magistrato Colombo si materializza negli ultimi mesi dell'inchiesta sulla corruzione, nei giorni che precedono la conclusione del libro. "Salvo alcune rilevanti ma sporadiche eccezioni - scrive il giudice - il mondo che conta matura, con spostamenti impercettibili ma continui, una specie di avversione a Mani Pulite, quasi che il continuare a mettere a nudo l'illegalità diffusa infastidisca, disturbi, rappresenti un intralcio per la politica e la gestione della cosa pubblica. Non è tanto quel che viene fatto ma quello che non si fa ad essere significativo, benché sia quanto meno avvilente per Borrelli, D'Ambrosio, Greco, Davigo e per me, dopo decine di anni di lavoro in cui abbiamo espresso senza tentennamenti il senso della nostra autonomia, e siamo pertanto stati fortemente esposti al rischio di attacchi, senza peraltro mai ricevere tuttavia nemmeno un appunto, vederci scaricare addosso a palate procedimenti disciplinari e denunce penali. Tuttavia impressiona e delude la coscienza civile, prima ancora di mortificare l'impegno professionale, il fatto che in questi quattro anni non sia stata adottata una legge, un provvedimento che faciliti le indagini o che renda più difficile, per quanto è possibile, la corruzione". Già, proprio questo è il punto che dà forza alla requisitoria, pur sempre sobria e pacata, che Colombo conduce nella seconda parte del suo libro (la prima, assai interessante, è dedicata alla formazione culturale e umana dell'autore), contro la cattiva politica di cui è pieno il nostro paese. E, bisogna sottolinearlo, le risposte tardano ad arrivare in questa eterna transizione che non appare ancora vicina a una sua soluzione positiva.
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