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Quello che dal risvolto di copertina sembrava essere (a mio modesto parere con intenzionale truffa ai danni dei lettori) un arguto saggio autocritico sulla rottura del patto generazionale, s'e' rivelato invece essere un atroce esercizio d'autocompiacimento, d'autoreferenzialita' e d'autoincensamento. Il protagonista suscita vivissimo odio in chiunque non abbia esattamente la medesima eta' dell'autore, un irreprimibile desiderio di prenderlo a calci e a ceffoni (il protagonista, non l'autore) (che poi e' un alter-ego dell'autore, sicche'...). Lavoratori precari, laureati in cerca d'impiego: girate alla larga da queste pagine, o l'infarto verra' a voi anziche' al protagonista! Un vero atto d'offesa rivolto ad ogni generazione fuorche' quella dell'autore, alla quale tutto si giustifica, tutto e' dovuto, per la quale tutto e' meritato. Patetico nella sua incredibile arroganza. Finito di leggere con sforzo atroce per puro dovere recensivo e immediatamente regalato alla biblioteca comunale per non vederlo piu' in casa. Non ho mai sentito d'aver speso denaro cosi' male e cosi' tanto a mio danno con un libro.
Avrei voluto dare un 3.5 perchè sono davvero indecisa tra il 3 ed il 4. Fose mi aspettavo qualcosa di più però è stato un bel libro, un'analisi originale di un certo periodo...e santagata riesce benissimo a fare un saggio romanzato". carino!
Teso fra frammentismo autobiografico e analisi storica, questo libro trasuda ottimismo e coraggio, che, circoscritti ad un ben determinato periodo storico, perimetrato dal dolore della guerra mondiale e dall'angoscia contemporanea, configurano un'isola felice che non dimentica il deserto intorno.
Recensioni
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Il protagonista del nuovo libro di Marco Santagata, come già Fabio Cantoni nel precedente L'amore in sé (Guanda, 2006; cfr. "L'Indice", 2006, n. 6),è un professore universitario di letteratura italiana. Ciononostante, le differenze tra i due libri non sono di poco conto: la narrazione è in prima e non più in terza persona, il tono da elegiaco diventa più spesso satirico, la letteratura c'entra, ma alle dettagliate analisi dei versi di Petrarca subentrano brevi accenni alla Vita Nova di Dante. E poi ora tutto sembra riguardare persone più individuate: il protagonista è nato a Zocca, in provincia di Modena; ha diversi figli, il maggiore oltre i trenta, da due matrimoni. La vicenda, ambientata tra la città dove il professore insegna e le mete delle sue missioni (Kiev, tra le altre), si svolge tra ottobre e la fine di dicembre del 2007.
Anche se sotto il titolo in copertina c'è scritto "Romanzo", Voglio una vita come la mia mescola alla finzione narrativa elementi autobiografici e affondi saggistici, a tratti rasentando la forma del pamphlet. Si tratta quasi della biografia di una generazione convogliata nella voce di un personaggio (e anche, per certi elementi, del ritratto di un io diciamo pure quello dell'autore dissimulato nel quadro di gruppo). La tenuta è affidata a un protagonista che si chiama Marco: comme tout le monde, sarebbe facile aggiungere, con Satie. Come Santagata, sarebbe forse meglio dire. Il personaggio è in gran parte l'autore, allude a fatti e persone che conoscono solo lui e quelli che sono passati dai medesimi collegi e dipartimenti. Ripete perfino, riveduta e corretta, una sua nota boutade sull'età in cui ha avuto il primo figlio. L'emancipazione di Marco dal suo empirico alter ego andrà semmai riconosciuta nell'intensificazione del carattere, funzionale allo sviluppo della tesi per così dire sociologica, della riflessione epocale nella quale risiedono l'importanza del libro e la sua attualità, oggi che la cultura italiana tende a ripensare e giudicare se stessa specchiandosi nelle ideologie e negli avvenimenti civili degli ultimi quarant'anni. Uno spazio anche stilisticamente più articolato per le vite degli altri avrebbe forse giovato alla riuscita di un romanzo che comunque incide, con precisione di rado raggiunta nella narrativa italiana, i tessuti connettivi del "corpo" nazionale.
Solo due generazioni, scrive Santagata nel prologo, hanno avuto il privilegio di vivere sempre in pace: quella dei nati tra il 1446 e il '50, cioè dopo la pace di Lodi del 1454, e quella dei nati tra 1946 e il '50. "I nati o durante la guerra o nei primi anni Cinquanta sono tagliati fuori dalla nostra avventura. Noi, e solo noi, abbiamo vissuto due infanzie, due giovinezze; noi abbiamo conosciuto due mondi. Noi siamo i frontalieri della Storia". Arrivati al momento giusto, "loro" hanno occupato tutti i posti possibili, godendo della modernità senza temerla come i più anziani e senza subirla come i più giovani. Passata la prima delle due infanzie in campagna, conoscono la natura per esperienza e se ne infischiano del politicamente corretto, del salutismo e dell'ecologia: fumano dove gli pare e poi, in fondo, il riscaldamento globale regala alle loro membra senili ancorché solide, ci mancherebbe il tepore di cui hanno bisogno.
Il cinismo con il quale il protagonista osserva il presente (memorabile e spietata è la descrizione iniziale di una benestante famigliola-tipo incontrata all'autogrill) finisce per coincidere con un punto di vista straniante e idiosincratico sulla realtà. Ne risulta e contrario anche una provocazione etica, che diventa più acuta nei brani sui figli e sulle loro opposte inadeguatezze. Il narratore, dimessa la sfrontata esaltazione dei propri successi e della multiforme capacità di adattamento alle situazioni propiziate dalla storia, fa i conti con l'avvilimento del precariato che grava sul figlio maggiore. L'inceppamento nella trasmissione di valori e di ruoli da una generazione alla successiva era già un tema importante in L'amore in sé. Qui torna, declinato non solo come materiale narrativo, ma anche come oggetto teorico, focussaggistico. A cavallo tra due epoche e due società, la generazione dei nati nella seconda metà degli anni quaranta ha potuto trarre il meglio dalle une e dalle altre. La loro forza deriva appunto dall'aver conosciuto due infanzie e due formazioni. Una condizione irripetibile: "La legge del due è ad generationem: dai padri abbiamo ereditato una unità, ai figli ne abbiamo trasmessa un'altra. L'uno più uno ce lo siamo tenuti per noi".
L'autore cita la frase di uno studioso suo allievo, secondo il quale "con quella di oggi forse per la prima volta si è affacciata alla ribalta della storia una gioventù conservatrice". (Claudio Giunta, L'assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso, il Mulino, 2008). In effetti, è probabile che agli occhi di quelli a cui "è sempre andato tutto bene" (con queste parole il figlio Antonio replica alle esortazioni del protagonista) passi per conservatorismo una più complessa e forse ambigua aspirazione: restaurare la ciclica possibilità di rivoluzione di cui hanno goduto le generazioni precedenti per prendere il posto dei padri. Si potrebbe discutere a lungo sul Sessantotto e sulle sue eventuali responsabilità nell'interruzione di un ciclo tutto sommato virtuoso. Certo è che quella stagione, pur non essendo proprio al centro del romanzo, viene considerata da Marco un altro grande regalo degli dei, dopo la pace duratura: più per il rinnovamento dei costumi, però, che per l'ideologia politica, verso cui il narratore non nutre particolari nostalgie.
Ma i doni prima o poi finiscono e non tutti i padri sono eterni. La contemplazione della morte, che assale oscenamente l'amico Emilio, prelude all'atmosfera crepuscolare del finale. L'ultimo dell'anno il protagonista torna a Zocca per ritrovare i vecchi amici, quelli che sono rimasti sempre lì e quelli che se ne sono andati. Come l'astronauta, Maurizio Cheli. Come Vasco Rossi. Appunto: "Vorrei che sbucasse Vasco, ci saltasse sopra con un microfono in mano e cominciasse a cantare agitando le braccia: Voglio una vita spericolata. E che la sua voce, sparata a tutto volume, rimbombasse nella valle giù fino all'acqua: voglio una vita come
Dentro, in silenzio, io gli farei eco:
come la mia". Niccolò Scaffai
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