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C'è un denominatore comune nella narrativa israeliana contemporanea che non riguarda il nucleo tematico dei romanzi né il rapporto che essi intercorrono con la complessa realtà storica e geografica a cui si riferiscono, ma che ha piuttosto a che fare con lo stile, con un'idea della lingua letteraria. È l'uso di un linguaggio denso, ricchissimo, dal suono dolce e dalla formidabile ricercatezza, che contraddistingue le opere della maggior parte degli autori d'Israele. L'ultimo che mi è capitato di leggere appartiene alla generazione dei quarantenni, è Shimon Adaf, di cui l'editore Atmosphere ha avuto qui in Italia la lungimiranza e il buon gusto di pubblicare Volti bruciati dal sole (la traduzione è di Olga Dalia Padoa), il suo terzo romanzo. Un gioiello di rara ricchezza che si muove su più registri per narrare la storia di Ori, da quando bambina le appare Dio nel televisore e le intima "Alzati Ori, perché è giunta la tua luce" - lei che fino a quel momento si era chiamata Flora, lei che da quell'istante in poi scoprirà l'incanto della scrittura, una sorta di riparo che la proteggerà e al tempo stesso la isolerà dal mondo - fino alle traversie dell'età adulta. Un romanzo di quasi quattrocento pagine in cui la lingua in certi passaggi edifica un mondo che non appartiene solo al dominio dell'immaginazione letteraria, ma che si fa quasi palpabile (ci sono frasi come "Rimase sveglia finché l'alba colmò la stanza di un lago di cenere uniforme, senza peso"), caratteristica che si deve forse al fatto che Adaf è anche poeta. Adaf, come molti suoi conterranei, è soprattutto uno straordinario cantore del quotidiano, di quei piccoli gesti ordinari di cui si compone l'esistenza umana, un narratore di interni di famiglia, di tepori notturni, di rapporti sociali che intercorrono nell'ambito di una qualsiasi comunità di esseri umani, e in questo sta la forza e la suggestione della sua scrittura, che è capace di renderci familiari personaggi e mondi lontani.
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