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La disfatta di Caporetto non fu certamente un caso fortuito, ma solo il frutto di un insieme di circostanze inconsuete. Il crollo della Russia zarista che uscì dalla guerra, consentendo ai tedeschi e agli austriaci di far affluire sul fronte occidentale nuove truppe, fu solo una di queste cause e nemmeno la maggiore. A essa si aggiunsero una nuova visione strategica e tattica dell'offensiva, le condizioni di prostrazione morale del nostro esercito provato dalle undici sanguinose battaglie dell'Isonzo, le incomprensioni e le incapacità dei nostri comandi superiori che, pur sapendo tutti i particolati di quello che sarebbe stato il grande attacco del nemico nulla fece per costituire una valida e resistente linea di difesa. Il risultato di questi fattori fu lo sfondamento delle nostre linee e la disastrosa ritirata di Caporetto. Nonostante i primi bollettini parlassero di viltà dei nostri soldati, questi invece spesso si immolarono inutilmente, gettati in un calderone senza criterio, così come senza logica erano state tutte le precedenti battaglie dell'Isonzo, condotte con lo stesso inefficace e tragico metodo. La responsabilità di questo disastro è da attribuire soprattutto a tre comandanti: al generale Cadorna, il macellaio, e ai generali Capello e Badoglio. Tuttavia, l'unico a essere colpito da provvedimenti fu il comandante in capo, il generale Cadorna, un uomo privo di elasticità strategica e tattica e che tuttavia consentì con le sue disposizioni che la ritirata non si tramutasse in una rotta irrefrenabile. Ritirato oltre il Piave, arroccato sul Grappa, il resto del grande esercito italiano, al cui comando fu posto il generale Diaz, con l'aiuto nei primi giorni più formale che sostanziale degli alleati, quei soldati che ingenerosamente erano stati tacciati di viltà diedero forse la migliore prova che ci è capitato di vedere nelle guerre combattute dopo l'unità d'Italia.
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