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Se ancora ha senso parlare di poesia “civile”, operando una distinzione di genere e contenuto in poesia, in questa categoria del quotidiano narrato a scopo sociale dovremmo inserire la poetica di Lanza, sottolineandone la freschezza e al contempo la maturità nella gestione discorsiva del verso. E’ bene inoltre sottolineare come in Etnapolis, poema inedito di prossima pubblicazione, e nelle contraddizioni del centro commerciale che descrive come una pagana meta di culto moderno, si vengono a definire un pathos e una partecipazione, talvolta in forma di j’accuse, degne di essere ascritte nell’epos moderno, allorquando gesta e dialoghi si intagliano in un reale raccontato per tenere traccia dell’alienazione di una società (la nostra), spaccata tra desiderio, necessità e consumo. In Etnapolis Lanza non si lascia andare a giudizi espliciti, limitandosi a una narrazione cruda e attenta di fatti e persone che sollecitino fortemente nel lettore uno sforzo partecipativo all’azione, in cui riconoscere la miseria del proprio stato di consumatore stritolato in una spirale di insoddisfazione. In questo scenario si muovono operatori commerciali, assetti sociali, una varia umanità accomunata dal compromesso di vendita e consumo, privata pertanto, più o meno consciamente, di quella autonomia di aspirazioni e desideri che sembrano soccombere a modelli e manichini privi di coscienza, cui necessariamente somigliare.
Poesia d’impianto sorvegliatissimo (come sottolinea bene Grazia Calanna nell’acuta prefazione al volumetto) quella di Antonio Lanza, che certamente spicca fra gli autori proposti per equilibrio formale e costruzione fonico-ritmica. E poesia soprattutto ‘civile’ che scandaglia le aberrazioni di questa presunta civiltà post-contemporanea (post-umana?) evidenziandone le storture e i meccanismi di fondo che soggiacciono a questo moderno e perverso gioco capitalista che l’autore, peraltro, vive quotidianamente nell’odiosa accezione dello “sfruttamento lavorativo”.
La sfida di Antonio Lanza è proprio questa: rappresentare, in poesia, quanto è davvero arduo da rappresentare perché esso è andato oltre o fuori delle categorie di pensiero da cui il linguaggio che usiamo è, invece, ancora figlio. Potrebbe essere questo, oggi, l’impoetico: quel quantum di violenza, offesa, asservimento dell’umano che è riuscito a travalicare e vanificare gli schemi razionali e linguistici che abbiamo a nostra disposizione per spiegarlo e/o rappresentarlo e che ci costringe a cercare mezzi espressivi nuovi adatti a dire (e a spiegare) quel quantum. Per questo alle spalle di Suite Etnapolis mi sembra di scorgere la lezione cattafiana dello sguardo disilluso e tuttavia irato e non rassegnato sulla realtà, forse anche quella ripelliniana del saper individuare il deforme e il mostruoso là dove e quando essi sono espressione di violenza e ingiustizia; e sicuramente Lanza ha studiato Volponi, Fortini, Di Ruscio, Marco Giovenale, quegli autori, cioè, che dall’interno del linguaggio stesso mostrano la realtà deformata e concentrazionaria in cui ci troviamo a essere, contemporaneamente, clienti e lavoratori, esseri umani spossessati di sé stessi.
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